Gulio Andreotti è stato ricoverato questa sera al Policlinico Gemelli per una nuova crisi respiratoria, dopo quella da codice rosso dello scorso 3 maggio che aveva fatto temere per la vita del senatore a vita e sette volte premier. Al momento le condizioni sono stabili e appaiono ‘soddisfacenti’.

I medici stanno cercando di capire il motivo di questa crisi causata da una aritmia poi regredita spontaneamente. L’ex leader democristiano è il politico italiano più blasonato: sette volte alla guida del governo, innumerevoli volte ministro, campione delle preferenze nelle liste della Dc. Ma per i suoi nemici è “Belzebù”, circondato da una fama di politico cinico e machiavellico che lui stesso, in fondo, ama coltivare. Giulio Andreotti ha alle spalle più di mezzo secolo di vita pubblica e, più di ogni altro governante, è stato identificato come l’emblema di un potere che nasce e si alimenta nelle zone d’ombra. Tanti i dubbi e i sospetti che hanno accompagnato la sua vicenda politica: il più infamante, quello di essere sceso a patti con la mafia. Per qualcuno bastava già la lunga amicizia con Salvo Lima, suo luogotenente in Sicilia, morto ammazzato nel 1992 a ridosso delle elezioni politiche che sancirono il crollo della Dc, per considerare Andreotti come un politico disposto al compromesso con Cosa Nostra. Poi arrivò Buscetta a raccontare la storia del bacio a Totò Riina. I colpevolisti erano di gran lunga più numerosi. Ma Andreotti sfidò i giudici andando a tutte le udienze del processo che lo vedeva imputato, la testa china sui suoi appunti, contestando l’accusa fino alla sentenza definitiva di assoluzione. Andreotti è nato a Roma il 14 gennaio 1919. “Quell’anno sono nati il Ppi di Sturzo, il fascismo e io. Di tutti e tre sono rimasto solo io”, si gloriava ultimamente. Da giovane, era un ragazzo religioso, studioso, molto serio, la schiena già lievemente incurvata e le idee chiare sul suo futuro. Unici divertimenti le partite della Roma (al vecchio stadio di Testaccio) e le corse dei cavalli all’ippodromo delle Capannelle. Si dice che fu il Papa in persona, Pio XII, a volerlo alla presidenza della Fuci , l’organizzazione degli universitari cattolici, al posto di Aldo Moro. Dopo pochi anni si ritrovò catapultato nelle stanze dei bottoni grazie all’ottima impressione che aveva fatto al leder della Dc Alcide De Gasperi. Nel 1946, a 28 anni, era già sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con una delega particolare per lo spettacolo. Il giovane Giulio si occupava del cinema a trecentosessanta gradi: dai tagli della censura ai copioni poco rispettosi della morale cristiana ai finanziamenti pubblici per sostenere le produzioni italiane. Di quegli anni si ricorda la polemica con Vittorio De Sica, accusato dal giovane sottosegretario di aver reso “un pessimo servizio all’Italia” con il suo pessimistico film “Umberto D”. Ma l’ambizione lo spingeva verso altri palcoscenici. Nel 1954 fece il salto e diventò ministro. Il suo feudo elettorale era la campagna a sud di Roma, da dove proveniva la sua famiglia: Fiuggi, Anagni, Alatri, antichi possedimenti delle nobili famiglie capitoline, diventarono centri della sua rete elettorale e clientelare. Politicamente rappresentava l’ala più conservatrice e clericale della Dc, i suoi avversari interni erano i fautori del centrosinistra, come Moro e Fanfani. Ottime le sue entrature in Vaticano, estesissima la sua rete di contatti internazionali. Fu nel 1972 che riuscì ad arrivare alla presidenza del Consiglio. Lo scelsero con scarsa convinzione, per dar vita a un governo di centro dalle scarse prospettive. E infatti fu il governo più breve della storia repubblicana: solo 9 giorni, dalla fiducia alle dimissioni. Ma il nostro non si scoraggiò. Già allora sapeva che “il potere logora chi non ce l’ha” e che “a pensare male si fa peccato ma di solito ci si indovina”. Queste due massime rappresentano la sintesi perfetta del pensiero politico andreottiano e sono ormai espressioni comuni. Per una di quelle curiose alchimie della politica che caratterizzavano la prima repubblica, fu lui, l’uomo della destra Dc, a essere chiamato a guidare i governi di solidarietà nazionale, alla fine degli anni settanta, con l’appoggio esterno del Pci. I leader della Dc avevano capito quale era la sua più grande dote: conciliare gli opposti, smussare gli angoli, digerire le difficoltà. Emblematico il suo rapporto con Craxi. Il leader socialista non lo vedeva di buon occhio e fui lui a coniare il soprannome di Belzebù. Andreotti era “la volpe che finirà in pellicceria”. Ma qualche anno dopo dopo, di nuovo a Palazzo Chigi, Andreotti strinse un patto di ferro proprio con Craxi : erano gli anni del “caf” (dalle iniziali di Craxi , Andreotti e Forlani) e l’opposizione di sinistra lo considerava come il peggio del peggio della politica italiana. Il film “Il Divo” di Sorrentino lo ritrae come responsabile o complice di mille nefandezze. Lui stava per querelare, ma poi preferì lasciar correre: era più andreottiano così: forse anche perché, altra sua perla di cinica saggezza, “una smentita è una notizia data due volte…

 

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