Dieci pagine fitte di valutazioni, indicazioni, prescrizioni più che mai necessarie per rendere lo stabilimento siderurgico Ilva di Taranto una fabbrica quasi modello, come in altri paesi (vedi Francia e Germania) dove il gruppo Riva ha stabilimenti in attività. Sono le conclusioni della perizia elaborata dagli esperti chimici nominati dal gip Patrizia Todisco nell’incidente probatorio, chiuso il 30 marzo, dell’inchiesta sull’inquinamento ambientale prodotto dall’Ilva.
E’ da quelle conclusioni che l’azienda dovrà ripartire per mettersi in regola rispettando le indicazioni contenute nell’ordinanza del Tribunale del Riesame che ha confermato il sequestro di sei impianti dell’area a caldo. Quanto tempo sia stato perso è testimoniato dalle ultime righe della perizia, laddove i consulenti indicano come necessaria “l’adozione dei sistemi di monitoraggio in continuo dei parametri inquinanti”: è prevista da un decreto ministeriale del 5 febbraio 1998, riguarda le “emissioni derivanti da impianti in cui sono trattati termicamente rifiuti” e dovevano essere installati dal 17 agosto 1999. Non c’è ancora nulla. Dalle prescrizioni dei tecnici, che hanno a lungo visionato il siderurgico, si rileva inoltre un problema concreto di adeguamento delle Bat, ovvero le migliori tecnologie possibili sugli impianti. Alle cokerie, ad esempio, (uno degli impianti sotto sequestro) le Bat sono in genere adottate ma in alcune aree c’è solo “una parziale applicazione” oppure sono state adottate tecnologie con “minore performance ambientale”. Basta guardare, scrivono i periti, i valori delle emissioni dei tre forni fusori del calcare. E per la fase di ‘cokefazione’ vengono indicati tre parametri di monitoraggio. Procedure, viene sottolineato, che “non risultano recepite integralmente nello stabilimento”. E’ anche critica la fase di ‘sinterizzazione’ dell’area agglomerazione. I tecnici qui rilevano “la mancata adozione del trattamento a umido dei fumi”, causata dal “fabbisogno di acque necessarie per il trattamento e ai conseguenti impianti di depurazione acque, allo stato mancanti”. Una applicazione differenziata delle Bat viene evidenziata nella fase di colaggio ghisa e loppa dell’area altoforno, andrebbero completati gli interventi di adeguamento dell’area acciaieria, occorrerebbe svolgere al coperto lo stoccaggio di pet-coke. Insomma, gli interventi a cui è chiamata l’Ilva sono imponenti, di lunga durata e certamente onerosi. Ed è questo cocktail di impegni che rende anche difficile abbozzare lo scenario futuro del siderurgico tarantino. Oggi l’ordinanza del Tribunale del Riesame è stata notificata a tutte le parti in causa. In Procura c’é stato un vertice tra i pm del pool che si occupa di reati ambientali e le forze dell’ordine; c’erano anche i tre custodi giudiziali nominati dal gip per far adeguare gli impianti. A loro, ieri, il tribunale ha affiancato anche il presidente dell’Ilva, Bruno Ferrante, quale custode e amministratore delle aree sequestrate. Oggi Ferrante ha incontrato in Lombardia la famiglia Riva e i loro legali; si attende il deposito delle motivazioni dell’ordinanza di ieri, che potrebbe avvenire anche dopo Ferragosto. “Credo che dopo questa tempesta che ci ha molto preoccupato ora ci si potrà dirigere verso una situazione più rasserenante, ma bisognerà collaborare tutti” ha dichiarato il leader della Cisl Raffaele Bonanni, mostrando un cauto ottimismo. “Non sappiamo quali saranno le scelte dell’azienda, e ci auguriamo che faccia scelte positive, di restare e continuare a investire a Taranto e negli altri stabilimenti italiani” ha sostenuto il segretario della Uil, Luigi Angeletti. Ma a colpire oggi è stata soprattutto una dichiarazione del ministro dell’Ambiente, Corrado Clini. “Farebbe crescere un suo nipotino nel quartiere Tamburi di Taranto?” gli è stato chiesto da un cronista del Fatto Quotidiano. “Sicuramente no. E non ci prenderei mai casa”. Riva, ha poi aggiunto Clini, ha “tirato troppo la corda” e “la situazione ambientale di Taranto richiede una strategia di risanamento urgente”. E l’Ilva adesso “ha smesso di protestare perché sa che non ha alternative. Non può più ridurre i costi risparmiando sull’ambiente, non può, è un reato”.