I giudici hanno depositato ieri le motivazioni della sentenza d’appello che ha condannato a 7 anni di reclusione l’ex senatore del Pdl Marcello Dell’Utri, imputato di concorso in associazione mafiosa. I magistrati che emisero il verdetto e che avevano fissato in 90 giorni il termine di deposito della motivazione avevano chiesto e ottenuto dal presidente della corte d’appello Vincenzo Oliveri una proroga di altri tre mesi per la particolare complessità del processo. Marcello Dell’Utri e’ stato condannato in primo grado a 9 anni di carcere e 7 in secondo grado. La Cassazione, poi, annullò con rinvio il verdetto: decisione che portò al secondo processo d’appello.

 

La condotta illecita del senatore è ”andata avanti nell’arco di un ventennio”, con una serie di comportamenti ”tutt’altro che episodici, oltre che estremamente gravi e profondamente lesivi di interessi di rilevanza costituzionale”. L’imputato, dicono i giudici nelle motivazioni della sentenza, ”ha ritenuto di agire in sinergia con l’associazione”. L’incontro avvenuto a maggio 1974, cui erano presenti Gaetano Cinà, Dell’Utri, Stefano Bontade, Mimmo Teresi e Berlusconi, ha ”siglato il patto di protezione di Berlusconi” si legge nella sentenza. ”L’incontro – è scritto – ha costituito la genesi del rapporto che ha legato l’imprenditore e la mafia con la mediazione di Dell’Utri”.

”In virtù di tale patto – proseguono – i contraenti (Cosa nostra da una parte e Silvio Berlusconi dall’altra) e il mediatore contrattuale (Marcello Dell’Utri), hanno conseguito un risultato concreto e tangibile costituito dalla garanzia della protezione personale all’imprenditore tramite l’esborso di somme di denaro che quest’ultimo ha versato a Cosa nostra tramite Dell’Utri, che mediando i termini dell’accordo, ha consentito che l’associazione mafiosa rafforzasse e consolidasse il proprio potere”. L’incontro dunque ”segna l’inizio del patto che legherà Berlusconi, Dell’Utri e Cosa nostra fino al 1992 – aggiungono i giudici nelle 477 pagine della sentenza – E’ da questo incontro che l’imprenditore milanese, abbandonando qualsiasi proposito (da cui non è parso ma sfiorato) di farsi proteggere da rimedi istituzionali, è rientrato sotto l’ombrello di protezione mafiosa assumendo Vittorio Mangano ad Arcore e non sottraendosi ma all’obbligo di versare ingenti somme di denaro alla mafia, quale corrispettivo della protezione”.

 

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