L’esercito americano ha colpito un altro sito controllato dagli Houthi nello Yemen che, secondo quanto riferito, metteva a rischio le navi commerciali nel Mar Rosso. Lo hanno detto due funzionari Usa e lo hanno confermato media dei ribelli yemeniti. I media dei ribelli yemeniti Houthi hanno confermato i nuovi attacchi nello Yemen all’alba di oggi, all’indomani dei primi bombardamenti americani e britannici contro i siti del movimento che sta minacciando il traffico marittimo internazionale nel Mar Rosso. Secondo il canale al-Masirah, questa mattina gli attacchi americani hanno preso di mira almeno un sito nella capitale Sanaa. Dopo gli attacchi britannici e americani di ieri, gli Houthi hanno lanciato “almeno un missile” che, tuttavia, non ha colpito nessuna nave, ha detto l’esercito americano. La Russia ha denunciato la “palese aggressione” da parte di Usa e Regno Unito sul territorio dello Yemen. “Si tratta dell’aggressione armata di un gruppo di paesi contro un altro paese, e non ha nulla in comune con l’auto difesa”, ha detto l’ambasciatore di Mosca all’Onu Vassily Nebenzia durante la riunione urgente del Consiglio di Sicurezza. Nebenzia ha accusato Usa e Gran Bretagna di aver violato l’articolo 2 della Carta Onu con la loro spedizione in Yemen contro le basi Houthi, quello che chiede ai membri di astenersi dall’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato. Anche l’ufficio di rappresentanza dell’Iran presso l’Onu ha condannato le operazioni militari di Stati Uniti e Regno Unito contro gli Houthi, in risposta agli attacchi del gruppo yemenita alle navi commerciali nel Mar Rosso. Le azioni dei due Paesi sono illegali e non sono autorizzate, secondo il diritto internazionale, ha affermato ieri sera l’ufficio di Teheran, aggiungendo: “Tale guerra ingiustificata viola la sovranità dello Yemen, le leggi internazionali, la Carta delle Nazioni Unite e le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e mette in pericolo la pace e la sicurezza della regione”. Già ieri mattina, il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Nasser Kanani, aveva “fermamente condannato gli attacchi”. Dopo settimane di avvertimenti rimasti inascoltati, è arrivata la ritorsione. Nella notte Stati Uniti e Gran Bretagna hanno lanciato 73 raid contro postazioni militari degli Houthi in Yemen che avevano a loro volta attaccato le navi commerciali nel Mar Rosso “legate a Israele” in solidarietà, a loro dire, con i palestinesi di Gaza. Potrebbe essere questo il primo atto della tanto temuta escalation del conflitto in Medio Oriente: i ribelli yemeniti – che, sostenuti dall’Iran, controllano un terzo del Paese – hanno minacciato di rispondere e annunciato di considerare ormai “obiettivi legittimi” tutti gli interessi anglo-americani nel mondo. La missione, condotta da aerei da caccia e missili Tomahawk dispiegati da Washington e quattro jet Typhoon della Raf britannica, ha colpito “siti di lancio per missili e droni” usati contro i mercantili nel Mar Rosso. Secondo il portavoce degli Houthi, sono state prese di mira postazioni militari nella capitale Sanaa e nei governatorati di Hodeida, Taëz, Hajjah e Saada, con un bilancio di “cinque combattenti morti e sei feriti”. L’ordine di attaccare è arrivato da Joe Biden dopo l’ennesimo missile yemenita giovedì verso una nave in transito. Il presidente americano ha poi spiegato di aver voluto dare una risposta agli Houthi per aver messo “a repentaglio la libertà di navigazione in uno dei corsi d’acqua più vitali al mondo” e di essere pronto a “ordinare altre operazioni”. Abbiamo inviato “un segnale forte” agli Houthi, ha commentato anche il premier britannico Rishi Sunak mentre era in visita a Kiev. Dallo scorso novembre, gli ex ribelli sciiti ormai al potere hanno lanciato 27 attacchi nel Mar Rosso, tratto di mare abitualmente attraversato dal 12% del commercio globale: i cargo sono quindi stati costretti a deviare la rotta che passa dal Canale di Suez verso il sud del continente africano, con ricadute sui tempi degli approvvigionamenti, la produzione e l’innalzamento dei prezzi. L’ultimo missile, sparato appena poche ore dopo i raid, è caduto in acqua a poche centinaia di metri da una nave, ha riferito la United Kingdom Maritime Trade Operations. “Il nostro obiettivo resta quello di allentare le tensioni e ripristinare la stabilità nel Mar Rosso”, hanno affermato in una dichiarazione congiunta Stati Uniti, Regno Unito e otto loro alleati: Australia, Bahrein, Canada, Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Nuova Zelanda e Corea del Sud. Fonti del governo italiano hanno fatto sapere che a Roma era stato chiesto di firmare la stessa dichiarazione – che non ha firmato – ma non di partecipare all’azione. Mentre l’Unione europea sta valutando l’invio nel Mar Rosso di “almeno tre cacciatorpediniere o fregate antiaeree con capacità multi-missione” per almeno “un anno” con regole di ingaggio ancora tutte da decidere. I raid notturni sullo Yemen sono stati condannati dal cosiddetto ‘asse della resistenza’ che, sostenuto dall’Iran, raggruppa i movimenti anti israeliani come appunto gli Houthi, gli Hezbollah libanesi e lo stesso Hamas, che ha definito l’azione “una provocazione contro la nazione palestinese” e minacciato “conseguenze”. Teheran ha accusato Usa e Regno Unito di aver condotto “un’azione arbitraria” e compiuto “un errore strategico”, così come la Russia che ha denunciato “un’escalation distruttiva”, chiedendo una riunione urgente del Consiglio di sicurezza dell’Onu. “Vogliono un bagno di sangue nel Mar Rosso”, ha reagito anche il presidente turco Tayyip Recep Erdogan accusando Londra e Washington di un “uso sproporzionato della forza”. “Preoccupazione” è stata espressa dall’Arabia Saudita – che dal 2015 guida una coalizione di Paesi arabi contro gli Houthi a favore di un governo alleato – e dalla Cina che aveva mediato tra sauditi e iraniani per un cessate il fuoco in Yemen. Un appello a “ridurre l’instabilità nella regione” è arrivato anche dall’Egitto, già impegnato nel tentativo di riesumare un negoziato indiretto tra Israele e Hamas, e che dal Mar Rosso trae sia le entrate derivanti dal transito commerciale nel Canale di Suez che quelle turistiche.

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