All’orizzonte si profila una nuova stretta per il pensionamento anticipato. La possibilità di uscire dal lavoro con 42 anni e 10 mesi di contributi potrebbe infatti richiedere tempi più lunghi: l’ipotesi è allo studio in vista della manovra e passa attraverso l’estensione della ‘finestra mobile’, ovvero il tempo d’attesa tra la maturazione del diritto alla pensione e il momento in cui si può effettivamente riscuotere l’assegno. Il dossier pensioni è uno dei tanti lavori in corso nel cantiere della legge di bilancio pronto ormai ad entrare nel vivo. Al vertice di maggioranza di venerdì la manovra sarà infatti al centro del confronto tra la premier Giorgia Meloni e i vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani. La quadra da trovare passa attraverso il difficile equilibrio tra gli appetiti elettorali dei partiti e l’incognita risorse, resa ancora più complessa dalle nuove regole del Patto di stabilità. Sui capisaldi la maggioranza si mostra compatta: assicura anche per il 2025 il mantenimento del taglio del cuneo e l’abbassamento della pressione fiscale attraverso la riforma dell’Irpef, con la sfida di estenderla anche ai redditi fino a 50-55mila euro. E nella lista delle priorità vengono indicate anche le agevolazioni per le madri lavoratrici e la maxi-deduzione per chi assume. A creare qualche attrito potrebbe essere invece il tema pensioni, con la Lega che guarda alle uscite anticipate e Fi che punta ad aumentare le minime. Sul tappeto anche l’idea di prevedere nel 2025 incentivi a chi resta al lavoro. E proprio sul rebus pensioni i tecnici sono già al lavoro con i primi calcoli e simulazioni. In particolare si starebbe esaminando la possibilità di introdurre un allungamento delle finestre per l’accesso alla pensione anticipata solo sulla base dei contributi e indipendentemente dall’età. Oggi ci si accede con 42 anni e 10 mesi di contributi (41 anni e 10 mesi per le donne) e la finestra mobile è di tre mesi: l’ipotesi, per l’anno prossimo, è di allungarla a 6-7 mesi. Con il risultato che l’uscita dal lavoro scatterebbe dopo 43 anni e 4 mesi (42 anni e 4 mesi per le donne), o addirittura 43 anni e 5 mesi in caso di allungamento a 7 mesi. Si ripristinerebbe così l’equilibrio con il canale di Quota 103 (62 anni d’età e 41 contributi) diventato non solo più difficilmente raggiungibile con l’allungamento delle finestre (portate da 3 a 7 mesi per il privato e da 6 a 9 per il pubblico) ma anche meno conveniente con l’imposizione ricalcolo contributivo che per molti significa una riduzione a regime dell’assegno. La conferma arriva dalle adesioni più scarse del previsto registrate finora: e così per confermare la nuova Quota 103 anche il prossimo anno potrebbe bastare il 70% di quanto stanziato l’anno scorso (quindi poco meno di 590 milioni, rispetto a 835 milioni postati per il 2025). Sembra invece remota, ma non esclusa del tutto, l’ipotesi di introdurre anche per le pensioni anticipate con 42 anni e 10 mesi il metodo di ricalcolo contributivo: consentirebbe un forte risparmio ma appare difficilmente digeribile dall’attuale maggioranza oltre che dai sindacati. Parallelamente prosegue a tutto campo la caccia alle risorse, con l’asticella puntata verso i 25 miliardi. In attesa dei potenziali incassi del concordato biennale e del possibile ‘tesoretto’ derivante dal buon andamento delle entrate, al Mef si studia a fondo anche il capitolo delle tax expenditure. L’obiettivo è sfoltire la selva di 626 spese fiscali (che salgono a 740 se si contano anche quelle locali). Un fenomeno che aumenta la complessità del sistema e genera una perdita di gettito pari al 4% del Pil, evidenzia l’Ufficio Valutazione Impatto del Senato, che rileva anche come per quasi l’80% delle misure ci siano “dati incompleti su oneri, beneficiari o importi pro capite”, mentre per quasi il 28% “non sia fornita alcuna stima”. Questo rende più difficile per il decisore politico poter fare valutazioni, osservano i tecnici di Palazzo Madama, che offrono quindi il loro suggerimento: porre attenzione alle spese con “elevati importi pro capite e basso numero di beneficiari”, oltre a quelle con “frequenze più consistenti ma valori per ciascun beneficiario poco significative”.

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