di Mario De Michele
“La mafia è una montagna di merda”. Quale incipit migliore dopo aver subito un attentato in perfetto stile camorristico? Ma non mi sento degno di citare Peppino Impastato, giornalista ucciso per la sua battaglia contro la Cupola. E non mi va di seguire la scia dei legalitari da tastiera che hanno ridotto ad uno slogan la sua frase impregnata di sangue e impegno civico. Una frase ripetuta come un mantra soprattutto da parte di chi nella vita reale non ha mai fatto nulla di concreto per scardinare il fortino della criminalità organizzata. Per colpa di questo nutrito esercito di carta composto da finti combattenti contro la camorra, Impastato è diventato un po’ come per un lungo periodo Che Guevara. Gli adesivi con la sua faccia li trovavi incollati anche sulle auto di fascisti fino all’osso, di ultrà razzisti o di giovani convinti che si trattasse di Bob Marley. “La mafia – sosteneva Giovanni Falcone – è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”. I pubblicitari dell’anticamorra non amano ricordare questa citazione. L’antimafia di professione si è trasformata in Spa. Fine della camorra. Fine dei soldi puliti che ci girano attorno. Ogni cittadino veramente onesto dovrebbe invece imprimersi nella mente la frase di Falcone. Non è un auspicio. O una considerazione fatalista. Pone l’accento sul ruolo dell’uomo, quindi della società, cioè di noi tutti, nel contribuire all’annientamento di questo fenomeno da noi stessi originato. Il magistrato simbolo della lotta alla mafia espresse un concetto indigesto per gli stomaci delicati. Le sue parole non hanno fatto breccia nelle persone che si sentono buone perché vanno a messa ogni domenica mattina. Non hanno suscitato entusiasmo in coloro i quali evadono le tasse e si arricchiscono sfruttando manodopera sottopagata e a nero. Hanno sortito effetti impalpabili in chi si affida ai santi in Paradiso per procacciare posti fissi ai propri figli. La definizione di Falcone non ha attecchito in chi ha il nonsenso civico di scambiare un diritto per un favore e in chi si comporta da suddito invece che da cittadino.
Ecco il punto. In quanto fenomeno partorito dall’uomo la camorra muore attraverso l’impegno degli uomini. Impegno significa responsabilità, peso, carico, onere, obbligazione, lavoro, dedizione. Quanti di quelli che si richiamano a Peppino Impastato hanno mai assolto ad uno solo di questi doveri civici? Quasi nessuno. Quanti preti intendono la loro missione come “darsi ai più deboli” come impongono i precetti evangelici? Quanti docenti insegnano per passione e per formare la classe dirigente del futuro? Quanti imprenditori sono propensi alla redistribuzione della ricchezza per una società più equa? Quanti professionisti benestanti escono dalle loro dimore dorate? Quanti politici e amministratori locali fanno l’interesse della collettività? Quanti giornalisti fanno un’informazione libera? Insomma quanti uomini che dovrebbero favorire la scomparsa del fenomeno mafioso fanno la loro parte? Lo Stato siamo noi. È inutile affannarsi nello sport più praticato d’Italia: lo scaricabarile. Puntare l’indice contro la politica, che pur ha raggiunto il sottosuolo e continua a scavare verso il basso, è solo un alibi per pulirsi la coscienza. Chi elegge gli eletti? Chi di noi è disposto a sacrificarsi per fare carriera? Meglio aspettare la manna dal cielo. “La mafia è una montagna di merda”, ovvio. Solo un mafioso potrebbe dire il contrario perché dovrebbe autocertificare che è un uomo di merda (cosa verissima). Ma noi cittadini in concreto cosa facciamo per spalare una parte di quella merda?
Siamo i più grandi produttori di chiacchiere del mondo. Per cambiare le cose servono i fatti. Le parole volano via nel vento. Chiudo parlando un po’ dell’agguato, purtroppo l’ennesimo, di cui sono stato vittima. Due malviventi su una moto e col volto travisato mi hanno sbarrato la strada mentre viaggiavo sulla mia auto. Uno mi ha costretto a scendere e mi ha preso a schiaffi (per la gioia di mia moglie), l’altro ha colpito con una raffica di calci e sprangate la portiera destra della vettura. Quello che mi aggredito fisicamente (ho riportato lesioni lievissime) mi ha urlato in faccia, traduco dal napoletano: “Per colpa tua il consiglio comunale di Orta di Atella è stato sciolto per camorra. Ci hai inguaiato”. E ha aggiunto: “Ora smettila di scrivere sul campo sportivo di Succivo”. Della vicenda si stanno occupando le forze dell’ordine alle quali come sempre mi sono immediatamente rivolto. Per la vicinanza istituzionale e personale colgo l’occasione per esprimere gratitudine verso il prefetto di Caserta Raffaele Ruberto, il procuratore capo di Napoli Nord Francesco Greco, il procuratore capo di Napoli Giovanni Melillo e il prefetto vicario di Frosinone Imma Fedele. Ringrazio Giorgio Guerrini, comandante provinciale dei carabinieri di Caserta, Donato D’Amato, timoniere del Gruppo di Aversa, Luca D’Alessandro, faro della Compagnia di Marcianise, e i comandanti Antonio Di Resta e Ugo Sorice, rispettivamente a capo delle stazioni di Orta di Atella e Cesa. Sincera riconoscenza anche nei confronti del primo dirigente del commissariato di polizia di Aversa Vincenzo Gallozzi.
Ai mandanti del raid intimidatorio voglio rivolgere un appello accorato: più mi minacciate, più mi sento motivato ad andare avanti; più pensate di intimidirmi, più mi rafforzate. Io non mi piego e non mi arrendo. Quindi delle due l’una: o mi ammazzate oppure perdete tempo. Non lo dico per atteggiarmi a impavido eroe. Ma solo perché non c’è via d’uscita. Sono fatto così (male, direbbe sempre mia moglie). Però faccio mia un’altra frase di Giovanni Falcone: “L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza”.