di Rosaria Capacchione*
Alcuni anni fa lo storico Paolo Macry riproponeva la questione meridionale attraverso un’analisi impietosa della classe dirigente del Sud, per nulla diversa da una arrogante e immutabile satrapia, ma includendo nella sua bocciatura anche le comunità di cui essa è espressione. Sosteneva, Macry, che “qualunque sia stato storicamente il ruolo dei governi centrali, molta parte del problema va addebitata alle classi dirigenti e alle comunità del Mezzogiorno”. Vale per eletti ed elettori, vale per i manager delle aziende strategiche, vale per l’élite della burocrazia degli enti locali, ciascuno portatore di un interesse autoreferenziale che dell’intermediazione politica ha un bisogno vitale. E questa si è rafforzata nel suo ruolo di interlocutore necessario in virtù della capacità esclusiva di intercettare (o di far credere di poterlo fare) risorse nazionali a vantaggio non di una politica volta al benessere collettivo bensì del proprio tornaconto elettorale. Il risultato è che, al posto dei governi locali, nelle regioni del Sud ci si confronta con comitati elettorali permanenti nei quali la selezione della classe dirigente è demandata alla singola capacità di aggregare consenso organizzato anche in totale assenza di programmi dettagliati o di riconosciute capacità personali. Anzi, in casi sempre più frequenti, anche in totale assenza di questi ultimi requisiti. Il tutto mascherato da una istintiva, quasi animalesca, capacità di comunicazione: aggressiva, provocatoria, piagnucolosa quanto basta a spacciarla per leadership fortemente popolare. E se questo accade in un’area del Paese la cui vita quotidiana è ancora fortemente condizionata dalla criminalità organizzata, ecco che le aggregazioni politiche, sempre più identificate con il leader e sempre meno con una idea di Paese, che hanno qualche chance di governo territoriale diventano fortemente attrattive per mafia, camorra, ‘ndrangheta o per i comitati di affari che si muovono secondo le stesse logiche e dinamiche.
Prendiamo Palermo e il caso Crocetta, senza cadere nella tentazione di analizzare i fatti di queste ore in chiave giudiziaria. E’ un fatto che il governatore siciliano si sia imposto sulla scena politica non per il suo programma – a eccezione di una declamata antimafiosità – ma per l’assenza di personalità credibili e lontane dai salotti lobbistici che hanno condizionato almeno cinquant’anni di vita di quell’isola (e dell’intero Paese). E’ un fatto che la sua forza di aggregazione, unita al consenso organizzato di spezzoni variegati di società siciliana, si sia infranta contro la mancanza di concretezza della sua azione di governo e alle mille contraddizioni che hanno segnato il suo mandato. E’ un fatto che la palude palermitana popolata da colletti bianchi e camici bianchi abbia invischiato e sporcato anche lui, complici le debolezze dell’uomo (e la conseguente ricattabilità) e la sua incapacità di tenere separate queste dalla gestione del bene pubblico.
E prendiamo Napoli, città metropolitana di oltre tre milioni di abitanti, capitale culturale del Mezzogiorno, ponte necessario tra la macroarea del Sud e la Capitale. In due settimane le inchieste della Direzione distrettuale antimafia hanno disvelato sistemi di potere che non appartengono al passato ma all’attualità, con il coinvolgimento (arresti, avvisi di garanzia, chiamate in correità) di persone che oggi siedono in Regione, in Parlamento, nei Comuni, in Europa, su poltrone dell’uno e dell’altro schieramento, appoggiati da uomini di camorra che hanno finanziato campagne elettorali personali. In qualche caso, nella stessa competizione, anche di schieramenti opposti. Cade l’ex senatore del Pd Lorenzo Diana, una vita dedicata alla lotta alla mafia; cade Carlo Sarro, uomo forte del Pdl cosentiniano (e oggi verdiniano) in provincia di Caserta; cade il sindaco della città della Reggia; vengono sfiorati un europarlamentare (del Pd) e un consigliere regionale eletto in una delle liste di appoggio al governatore De Luca. Cade l’ex senatore Tommaso Barbato, stratega della gestione privata dell’acqua pubblica, gran fabbricante di consensi (prima per l’Udeur, poi per il Pd o liste collegate): tutti collegati a una rete di imprenditori d’accatto che hanno fatto fortuna senza avere grosse capacità manageriali ma consapevoli di essere il terzo piede del tavolino, elemento necessario al prosperare di organizzazioni mafiose e politici in carriera. In periferia accade ancora oggi l’inverosimile: nei consigli comunali vengono eletti non prestanome insospettabili ma, direttamente, i familiari dei capiclan; le campagne elettorali sono segnate da minacce, intimidazioni, pestaggi.
Le aggregazioni politiche sono funzionali solo all’affermazione di una rendita personale di consensi e alla conta successiva in vista della prossima campagna elettorale. Oggetto del contendere è l’industria pesante del Sud, e cioè il mercato del mattone; in subordine, il controllo della sanità privata e dei servizi essenziali: acqua, gas, rifiuti. Da quei piccoli consigli comunali, da quei candidati eletti con una messe di voti poco conciliabile con le altissime percentuali di astensione e con la generalizzata disaffezione alla politica, nascono i portatori di consensi capaci di condizionare le assemblee di partito, l’esito della primarie (per il Pd) o la formazione delle liste (per tutti gli altri) e, di conseguenza, la composizione dei consigli regionali e del Parlamento ma anche le aziende sanitarie, i consorzi, gli Ato; e la politica di gestione industriale, di ripartizione delle acque, di mobilità. Il risultato è una casse dirigente mediamente inadeguata, mediocre. E’ in questa maniera, per esempio, che per oltre vent’anni è stata gestita nel Sud la politica sanitaria, ambientale ed energetica. L’emergenza rifiuti è stata figlia di questa situazione nella quale la camorra (e nello specifico il clan dei Casalesi) ha avuto gioco facile a esercitare in maniera parassitaria il suo ruolo di supplenza delle strutture pubbliche statali e regionali. Emergenza sopravvissuta a se stessa in virtù dell’autonoma capacità di generare immense provviste finanziarie e di creare consenso da spendere nel voto amministrativo e politico ma anche in consulenze redditizie e prestigiose. A tutti i livelli, compresi quelli ministeriali. Si è formato, dunque, una sorta di capitalismo politico che si è rafforzato negli ultimi vent’anni grazie anche a una proposta politica di stampo ultraliberista, assai affine a quel modello, che ha mortificato e talvolta annientato ogni speranza di libero mercato.
Seguendo il ragionamento di Paolo Macry, una politica così fatta “ha ingessato il processo di selezione delle classi dirigenti meridionali”, rafforzando quella molle satrapia di cui si diceva prima e politiche nepotistiche e clientelari. La contropartita è stata il silenzio, la non interferenza nelle scelte di governo sempre più spesso subìte, con la conseguenza del progressivo depauperamento del capitale di idee e di progetti che pure avrebbero trasformare in positivo il Mezzogiorno d’Italia. Fare finta di niente per comodità elettoralistiche non è più possibile. Le indagini sulle grandi opere al Nord, sulle interferenze della ‘ndrangheta in Liguria, Piemonte, Lombardia, su Mafia Capitale a Roma hanno attualizzato le profezie di Leonida Rèpaci che, mezzo secolo fa, ammoniva: “La questione meridionale è tutta la questione italiana. Se la piaga della degradazione non si chiude, la cancrena che potrebbe seguirne non minaccerebbe solo la distruzione della parte malata ma l’intero organismo nazionale”. Con la linea della palma salita fino alle Alpi, sarebbe suicida non ripensare le strategie di selezioni della classe politica e della classe dirigente italiana. Guardando alle ferite del Sud ma alla crescita dell’Italia intera.
*Senatrice del Partito Democratico
Mafia, politica e la crisi dei partiti: la palude che ingessa il Sud
Intervento pubblicato su L’Unità del 18 luglio 2015