di Antonio Martucci
Sei anni fa, in un tranquillo paese a 50 chilometri da Roma, Rignano Flaminio, i genitori di alcuni bambini della scuola materna ”Olga Rovere” si rivolgono ai carabinieri per raccontare una storia di abusi che i loro figli avrebbero subito. A quelle denunce seguono quelle di altri genitori che coinvolgono complessivamente 21 bambini.
Sono i primi passi di una vicenda giudiziaria che per settimane è stata la principale notizia di telegiornali e quotidiani. Il pm di Tivoli, Marco Mansi, al termine della sua requisitoria, ha chiesto dodici anni di reclusione per ciascuno dei cinque imputati per violenza sessuale di gruppo, maltrattamenti, corruzione di minore, sequestro di persona, atti osceni, sottrazione di persona incapace, turpiloquio e atti contrari alla pubblica decenza. Secondo la ricostruzione dell’accusa, i piccoli sarebbero stati sottoposti anche “ad atti di sevizia e crudeltà”, nonché ad assistere o partecipare ad atti a sfondo sessuale.
La sentenza, emessa nei giorni scorsi, dal tribunale di Tivoli presieduto da Mario Frigenti è lapidaria: “Tutti assolti perché il fatto non sussiste”. L’inchiesta, iniziata nel 2006, culminò con l’arresto di sei indagati sulla base di indagini accurate quali l’installazione di cimici e telecamere presso la scuola materna, l’audizione dei bambini che descrivono come essi sarebbero stati oggetto di violenze sessuali, le testimonianze dei genitori, tra cui quella di una madre la quale riferisce che la figlia le avrebbe indicato la casa di due degli imputati come luogo nel quale faceva “giochi brutti”, le dichiarazioni di un consulente della procura, che afferma di aver rilevato tracce di benzodiazepine sui capelli di due bambine, farmaco che solitamente viene utilizzato nei reati di natura sessuale.
Alcuni mesi dopo alcune centinaia di persone manifestano all’esterno del carcere di Rebibbia in favore degli arrestati, mentre vengono depositate le motivazioni della sentenza della Cassazione che afferma: “Allo stato delle investigazioni, è consentito rilevare che, se vi sono state violenze sessuali, esse sono state perpetrate con modalità differenti da quelle riferite nelle denunce ……e che ci sia la possibilità che gli adulti abbiano influito con domande suggestive sulla spontaneità del racconto dei bambini, evidenziando una forte e tenace pressione dei genitori sui minori e una forte opera di induzione e di suggerimento nelle risposte”.
Nonostante il collegio di difesa abbia più volte chiesto l’annullamento del procedimento, il processo si è svolto ugualmente con la piena assoluzione degli imputati. Noi non vogliamo intervenire nel merito della vicenda, schierandoci a favore di una delle due tesi. Possiamo solo prendere atto del responso dei giudici e abbiamo l’obbligo di registrare la volontà delle famiglie di proseguire nell’iter processuale, ricorrendo in appello. Ma una considerazione generale sul funzionamento della giustizia è d’obbligo. Quello in questione non è, e sicuramente non sarà, né il primo né l’ultimo di casi clamorosi di divergenza di opinioni in un giudizio, ma questo processo evidenzia una totale difformità di pareri che non trova mediazioni o sintesi.
Non siamo in presenza di assoluzione per insufficienza di prove o per non aver commesso il fatto, ma davanti ad una espressione di insussistenza. Ed allora delle due l’una: o il Presidente Frigenti non ha tenuto conto di fatti evidenti o era soggetto a chissà quali interessi o pressioni sul merito della sentenza e con lui l’intero collegio giudicante, o il Pm Mansi non aveva sufficienti elementi probatori, non solo per far condannare gli imputati ma, come sostenevano gli avvocati difensori, non vi erano le condizioni per andare in giudizio. La distanza delle posizione è talmente evidente per cui,inevitabilmente, qualcuno dei magistrati è in grave errore nell’esercizio delle proprie funzioni. Nel valutare la gravità di tale situazione è corretto evidenziare che è possibile che qualcosa del genere possa accadere nello svolgimento delle attività lavorative, perché siamo uomini e quindi fallibili.
Quello che abbiamo difficoltà ad accettare ,in linea di principio, è il fatto che la regola sanzionatoria nei casi di errore grave riconosciuto e documentato dagli eventi, dalle denunce o dalle testimonianze, valga per tutti i lavoratori ma mai per i giudici. Su questo la categoria afferma convinta che il procedimento disciplinare interno esiste, funziona e periodicamente colpisce i magistrati i quali vengono sanzionati o trasferiti di procura. Il problema da porre in evidenza è che se questo avviene è per motivi che mai hanno a che vedere con il merito professionale riferito all’operato processuale, come potrebbe essere per il caso in questione. Un po’ come avviene per altre categorie, come ad esempio i medici, i quali operano con scienze non esatte e sono legati a valutazioni individuali circostanziate nel tempo e nello spazio, che impediscono di accertare un loro errore in considerazione della valutazione soggettiva.
Questo elemento tecnico-professionale porta diritti alla impunità. Come nel caso della sanità, dove è elevato il rischio per la salute dei cittadini, così diventa ad alto rischio l’esercizio della giustizia, sia per i cittadini che sono parti lese, sia per quelli che rischiano la galera, la gogna mediatica o il pubblico ludibrio, se accusati ingiustamente. Non si può rimanere in queste condizioni senza intervenire perché l’assenza di una giustizia per tutti è una vergogna civile.