Non solo le 500mila firme popolari da raccogliere entro settembre. Il fronte del no all’autonomia differenziata sta per mobilitare anche cinque Regioni che entro il mese dovrebbero formalizzare la richiesta di referendum. Si parte lunedì con la Campania, per continuare con l’Emilia Romagna (già martedì) e poi Sardegna, Puglia e la Toscana. Ma sulla strada delle opposizioni non c’è solo lo scoglio del quorum – attenzionato da Carlo Calenda -, ma anche quello dell’ammissibilità stessa del referendum. La legge Calderoli, infatti, è collegata a quella di bilancio e quindi potrebbe rientrare nella casistica delle leggi per cui è precluso il ricorso al referendum abrogativo. Per questo, insieme al quesito abrogativo tout court, le cinque Regioni dovrebbero presentarne anche un altro – in comune – che va ad incidere in modo selettivo sui contenuti della norma, mirando al cuore del provvedimento: i Lep, i livelli essenziali di prestazione. Non è, infatti, solo Calenda – nel centrosinistra – ad aver ben presente i rischi di una consultazione popolare sull’autonomia. A partire dal Pd, tutti i partiti che l’hanno promossa conoscono i possibili intoppi. E cercano di prevenirli. Tra i dem si è diffusa una certa sicurezza che in autunno ci sarà il via libera dalla Corte al quesito perché – come spiega Andrea Giorgis, esperto della materia – “sarebbe abbastanza curioso considerare l’autonomia differenziata di Calderoli una sorta di legge di bilancio” in quanto “nel suo ultimo articolo espressamente prevede di non comportare oneri per lo Stato”. Ma, in caso contrario, per mettere in sicurezza l’iniziativa, si sta limando il piano B: un secondo quesito che si concentri su questioni più specifiche. Il M5s, che esprime la governatrice della Sardegna, propone un accordo addirittura su 5 quesiti: quello originario più quattro parziali, per dare la possibilità ai cittadini, “ove mai il primo fosse dichiarato inammissibile, di esprimere la loro netta contrarietà a tutti i punti significativi dello Spacca Italia”, spiega il coordinatore del comitato politico-istituzionale del Movimento Alfonso Colucci. A tal fine i consiglieri campani pentastellati – fa sapere – hanno già depositato gli emendamenti del caso ed entro domani si dovrà giungere ad una sintesi. Quanto al secondo grande scoglio del quorum, la partita è aperta. Le opposizioni sono chiamate ad una grande (e fruttuosa) mobilitazione, pena – come continua a pronosticare il leader di Azione – il fallimento e il doppio regalo a Giorgia Meloni. Come fare? In primis, tenendo alta la bandiera contro “lo Spacca Italia” in tutte le occasioni politiche e non. In secondo luogo, puntare sul Nord. Se il Sud è, infatti, considerato dai promotori del referendum terreno già fertile, l’intenzione ora sarebbe di concentrarsi in particolare sulle aree settentrionali. E perorare la causa della “difesa della coesione e l’unità del nostro paese”. “Capiamo chi pone il tema quorum – afferma il responsabile Coesione dei democratici, Marco Sarracino – ma che dovremmo fare? Consegnarci e deporre le armi? Personalmente conosco tanti elettori di centrodestra che sono contrari a questa autonomia, conteremo anche sulla loro collaborazione”. Calenda è sempre più critico: “Il referendum è un suicidio. Per vincere servono 13 milioni di voti in più di quelli presi alle elezioni da chi lo propone. Siamo alle solite: Landini lancia la palla e Schlein non può chiamarsi fuori dalla contesa per l’egemonia a sinistra cui concorre anche Conte”. Gli risponde il verde Angelo Bonelli: “Solo con l’unione si vince e la modalità decisa da Calenda ripropone la rottura voluta dallo stesso leader di Azione che ha lasciato il 25 settembre del 2022 a Giorgia Meloni la possibilità di vincere le elezioni”. Più tranchant il pentastellato Colucci: “Credo che Calenda con questi argomenti voglia più che altro nascondere le divisioni interne al suo partito”.
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