“Abbiamo diritto a una giustizia che, come si legge nelle aule di tribunale, sia ‘uguale per tutti’. Per tutti, senza che siano certe Procure a decidere chi sì e chi no”: Marina Berlusconi, con un intervento a sua firma sulle pagine del Giornale, interviene nel dibattito sulla riforma della giustizia e porta la sua “testimonianza” e una “denuncia, innanzitutto come figlia”. “La persecuzione di cui mio padre è stato vittima, e che non ha il pudore di fermarsi nemmeno davanti alla sua scomparsa – scrive -, credo contenga in sé molte delle patologie e delle aberrazioni da cui la nostra giustizia è afflitta”. Il riferimento della presidente di Fininvest e Mondadori è all’inchiesta della Procura di Firenze sulla stragi del 1993-94 che “ha aspettato giusto un mese dalla sua scomparsa, la Procura di Firenze, per riprendere imperterrita la caccia a Berlusconi, con l’accusa più delirante, quella di mafiosità. Mentre nel Paese il conflitto tra magistratura e politica è più vivo e violento che mai”. Secondo Marina Berlusconi, “siamo incastrati in un gioco assurdo, che ci costringe a un eterno ritorno alla casella di partenza. È una sensazione sconfortante, perché sembra che ogni ipotesi di riforma diventi motivo di scontro frontale, a prescindere dai suoi contenuti. Sia ben chiaro, spetta solo a politica e istituzioni, nel rispetto del dettato costituzionale, affrontare problemi gravi come questo. Sento però la necessità di portare una testimonianza, e una denuncia, innanzitutto come figlia”. ” È una storia – prosegue rivolgendosi al direttore del Giornale Augusto Minzolini – che vede una sia pur piccola parte della magistratura trasformarsi in casta intoccabile e soggetto politico, teso solo a infangare gli avversari, veri o presunti”. E allora “l’avviso di garanzia serve così solo a garantire che l’indagato venga subito messo alla gogna: seguiranno le canoniche intercettazioni, anche le più lontane dal tema dell’inchiesta. Ma tutto serve a costruire la condanna mediatica, quella che sta loro davvero a cuore, prima ancora che il teorema dell’accusa venga vagliato da un giudice terzo. Un meccanismo diabolico, questa tenaglia pm-giornalisti complici che rovina la vita ai diretti interessati ma anche condiziona, e nel caso di mio padre si è visto quanto, la vita democratica del Paese, avvelena il clima, calpesta i più sacri principi costituzionali”. E’ un “fine pena mai”. Nemmeno con la morte. “Ci sono ancora pm e giornalisti che insistono nella tesi, assurda, illogica, molto più che infamante, secondo cui mio padre sarebbe il mandante delle stragi mafiose del 1993-94. È qualcosa di talmente enorme che fatico perfino a scriverlo” aggiunge, ricordando quanto fatto dal padre contro la criminalità. “Contro Cosa Nostra nessun altro esecutivo ha mai fatto tanto. Ma tutto questo non basta. La lettera scarlatta giudiziaria che marchia l’avversario resta indelebile, gli sopravvive. E il nuovo obiettivo è chiaro: la damnatio memoriae. No, purtroppo – constata – la guerra dei trent’anni non è finita con Silvio Berlusconi. E non riguarda di certo soltanto lui. Perché un Paese in cui la giustizia non funziona è un Paese che non può funzionare. Non m’illudo che, dopo tanti guasti, una riforma basti a restituirci alla piena civiltà giuridica. Ma penso, e spero, che chi ha davvero il senso dello Stato debba fare qualche passo importante. Non dobbiamo, non possiamo rassegnarci”.