«Simba non ce l’ha fatta. Lo avevamo rianimato altre volte in passato, ma ieri il nostro piccolo leone non ce l’ha fatta». Lo racconta con voce commossa Marco Caramanna, presidente dell’associazione La Casa di Matteo di Napoli, che ospita bambini con gravi patologie, abbandonati e che hanno bisogno di affetto Simba aveva tre anni e viveva nella stessa struttura che in agosto ha accolto Elsa, la bambina di 9 anni che aveva la colonna vertebrale deformata perché per tutta la sua vita non aveva mai dormito in un letto. Ogni bambino accolto nella Casa di Matteo porta un nome dei cartoni animati. Se Elsa è la principessa di Frozen, Simba è il piccolo cucciolo del Re Leone che lotta sempre. Tre anni fa Simba, di solo 4 mesi, arriva all’ospedale pediatrico Santobono di Napoli grazie alla segnalazione di un assistente sociale. La madre del piccolo si allontana con una scusa e abbandona Simba. «A quel punto – racconta Caramanna – siamo stati contattati noi ed è iniziata questa lunga storia. I medici hanno scoperto che il bambino, tramite il latte materno, aveva assunto stupefacenti perché la madre era una tossicodipendente che aveva fatto vivere il bambino, insieme con il fratellino, in una baracca di fortuna. Il neonato aveva dunque delle vere e proprie crisi d’astinenza che gli hanno causato danni neurologici e crisi epilettiche fino a dover subire prima una e poi una seconda tracheotomia per essere alimentato». Per cinque mesi gli operatori de La Casa di Matteo assistono il bambino al Santobono, per altri cinque al Bambino Gesù di Roma. «Poi – ricorda Marco Caramanna commuovendosi – finalmente è tornato nella nostra Casa e lo abbiamo accudito fino a ieri quando una crisi respiratoria, l’ennesima, lo ha portato via». Intanto il fratellino di Simba, proprio grazie alla sua storia oggi è salvo ed è stato adottato da una famiglia. Come si reagisce alla morte di un bambino di tre anni che ha già sofferto così tanto nella vita? «Non è semplice – dice Carammanna – Noi operatori siamo conviti di essere preparati perché viviamo tutti i giorni la sofferenza. Però la morte di un bambino di 3 anni è una cosa innaturale e per quanto puoi provare a prepararti alla fine non lo sei mai. Io ieri ero presente, ho partecipato alla rianimazione fisicamente, e a livello emotivo è stato davvero molto impegnativo. Anche perché abbiamo altri bambini in struttura e dover continuare a lavorare è stato un po’ surreale. Mentre Simba era finito altri bambini avevano bisogno di me e io non potevo non accudirli».

Simba non aveva una famiglia, non aveva un padre, non aveva una madre, nessun parente stretto, ero solo e sarebbe morto solo se non fosse stato per la Casa di Matteo. «Senza di noi – ci tiene a sottolineare Caramanna – Simba avrebbe vissuto tutto questo senza nessuno vicino, in un letto d’ospedale. Noi in questi anni siamo stati la sua famiglia, non lo accudivamo solo a livello sanitario ma anche e soprattutto sotto il profilo emotivo. Ad esempio Simba non vedeva e non sentiva bene e noi avevamo organizzato attività sensoriali per riuscirlo a stimolare e a fargli avvertire il mondo circostante. Quando si agitava lo riuscivamo a calmare prendendolo in braccio. Sono cose che in ospedale non sarebbero avvenute perché è diverso il metodo e soprattuto i numeri da gestire». Ricreare un ambiente familiare, assistere un bambino che vive queste sofferenze è un’opera complessa. Significa, per una struttura come La Casa di Matteo, che funziona h24, organizzare turni esterni h24 in ospedale e farlo anche in due città differenti come è successo per Simba. Questo richiede uno sforzo e un impegno sia lavorativo che economico importante. Un’impegno che molti definirebbero eroico.

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