di Nicola del Piano
Viene difficile immaginare esseri umani attraversare miglia e miglia di mare aperto per finire rinchiusi in gabbie meno grigie di quelle vere. Si dirà che in determinate situazioni, l’uomo rischia tutto pur di salvare quel poco di dignità che è rimasto della sua vita. Anche punizioni laddove il reato non c’è. Ci sono dei luoghi in Italia dove il diritto resta sospeso e dove l’attenzione difficilmente viene attratta.
Quei luoghi vengono chiamati “Centri di identificazione ed espulsione” e sono nati da una peculiare applicazione di una legge del marzo 1998 (la cd. legge Turco-Napolitano). Alla base di tale normativa, vi era l’intento di regolarizzare l’immigrazione, tentando di scoraggiare quella clandestina. Gli immigrati extracomunitari, privi di validi documenti di riconoscimento ed in attesa di essere “riconosciuti”, vengono rinchiusi, in vista di una possibile espulsione. La configurazione data dalla suddetta legge e da quella successiva (la cd. legge Bossi-Fini del 2002) all’immigrato ed al fenomeno complesso dell’immigrazione appare assai limitativa e fuorviante.
In principio, erano i Centri di permanenza temporanea, poi trasformatisi, meno ipocritamente, nei C.I.E, centri di identificazione e di espulsione. I giorni di detenzione previsti all’inizio erano 60, passando poi a sei mesi nel 2009, a 18 mesi nell’agosto 2011. Quello dei 18 mesi è il tempo massimo previsto dalla direttiva europea sui rimpatri per casi eccezionali. In Italia, una tale situazione d’emergenza è diventata la regola. Un anno e mezzo per cosa? E, soprattutto, dove? In celle colorate, non reclusi ma “ospiti”, ove l’unico desiderio diventa quello di “allontanarsi arbitrariamente”, perché non essendoci un reato né un carcere, non si può neanche “evadere”, anche se il senso è lo stesso.
La fenomenologia del carcere e del carcerato si dipana inevitabilmente e tutto ciò che accadrebbe lì, avviene in forme, se possibile, peggiori; a Torino nel 2011 ci sono stati 156 atti di autolesionismo, 100 per ingestione di corpi estranei e 56 per ferite di arma da taglio. Un terzo dei reclusi assume psicofarmaci, senza la prescrizione di uno psichiatra. Vi è un ulteriore aspetto ancora più terrificante che non dovrebbe avere a che fare con questa rubrica o con qualsivoglia aspetto penalistico o di politica criminale. Nel rapporto “Le sbarre più alte”, Medu (Medici per i diritti umani) riferisce che nel Cie di Roma sono stati internati 820 romeni nel biennio 2010-2011.
Cosa c’entrano i romeni con i Cie? Cosa ci fa un cittadino europeo, che non ha quindi bisogno del permesso di soggiorno, in un Cie? Il nostro Paese come sta utilizzando, dunque, tali Centri? In che proporzioni si manifesta l’abuso che ne deriva, contro ogni norma di diritto internazionale e contro la stessa Carta costituzionale? Questa incertezza del diritto che costella la complessità del problema immigrazione si pone in contrasto con ogni principio penalistico, e le stesse scelte di politica criminale che sono state messe in atto, pur apparendo discutibili, sarebbero tuttavia comprensibili, se solo però ci si trovasse in presenza di criminali.
Infine, un ultimo non trascurabile aspetto è quello che riguarda i costi dei Centri che si riflettono inevitabilmente sul nostro Paese, finendo per rendere una situazione temporanea e di passaggio per il migrante, fruttuosa per qualcuno e deleteria per le già povere casse nostrane. Il tempo di permanenza dei nostri “ospiti” e dei nostri migranti dovrebbe far posto alla brevità e alla certezza, ed invece lascia spazio ad un’irrefrenabile voglia di essere accusati di qualcosa, pur di trovare giustificazione (kafkiana) al proprio status di “recluso”.
Un tale sistema, in realtà, trova in sé stesso la sua assoluzione e la sua ragion d’essere, poiché l’ingiusta detenzione ha al suo interno elevate probabilità di formare criminali, trovando una giustificazione alla sua esistenza proprio sul finire dell’esperienza carceria degli uomini che ospita.