di Nicola del Piano
Nella vita, come nel diritto, le parole sono importanti. Il logos è alla base del ragionamento ed è la strada che conduce alla chiarezza e non al paradosso, alla ragione e non al buio. In questo preludio d’autunno (che si annuncia più “caldo” di quest’estate), se ne sono sentite d’ogni specie riguardo la materia delle intercettazioni. In particolare, per il conscio coinvolgimento del Presidente della Repubblica.
Avviene che la voce del Presidente Napolitano venga ascoltata nell’ambito di un’inchiesta che riguarda un ex ministro ora imputato quale falso testimone sui negoziati Stato-mafia. Apriti cielo. Si invocano leggi ad hoc e interventi della Corte Costituzionale.


Ma, come sempre, torniamo alle norme. La soluzione, per lor signori, è offerta da un articolo del codice. L’art. 271 c.p.p. prevede il divieto di utilizzazione delle intercettazioni “invalide”, inaudita altera parte, in deroga al co. 6 dell’art. 268. E’ incauta questa previsione, perché uccide il contraddittorio e i principi su cui si fonda il nostro processo penale. Non è tutto qui.
Dall’altra parte, se volessimo far riferimento all’art. 90 della Costituzione che prevede l’immunità penale del Presidente, non troveremmo certo il divieto d’ascoltarlo conversante su linee controllate legittimamente né possiamo far riferimento all’art. 7 della legge 5 giugno 1989 n. 219 dove è stabilito che intercettazioni, ricerche coattive, misure cautelari possono essere disposte nei suoi confronti solo quando la Corte Costituzionale l’abbia sospeso dalla carica. Nell’inchiesta di cui sopra, trattasi di ascolti accidentali e non di un procedimento a carico del Presidente della Repubblica. D’altro canto, lo stesso art. 271 ultimo comma vieta la distruzione dei reperti, anche se l’origine è illegale, qualora quelle intercettazioni costituiscano “corpo del reato”, ponendo saggiamente in secondo piano il principio della riservatezza.
Vige, dunque, in Italia il divieto di ascoltare alcuni? Tanta agitazione non è il preludio per certi nascondimenti? Può ciò essere talmente evidente che, scrivendolo, sembra di essere il maestro del libro “Cuore”.

Si è addirittura affermato che la difesa della “voce” del Presidente della Repubblica è la difesa di un principio. Quale sarebbe codesto principio? Quello forse dell’inviolabilità e della sacralità? Ma questi appartenevano ad altri tempi e ad altri corpi.
Urla e paradossali elucubrazioni verbali tentano, ancora una volta, di riportare indietro a secoli bui, ove inviolabilità e sacralità erano proprie di corpi sovrani, di re et similia.
In questo senso, nel 2003 (governo Belusconi II) le urla si tramutarono in norme, allorché la legge n. 140 del 20 giugno, volendo attuare l’art. 68 Cost., riguardante le immunità parlamentari, inserì in questa anche quelle del Presidente della Repubblica. Peccato che i tre commi dell’art. 1 furono dichiarati invalidi, perché in evidente contrasto con l’art. 3 Cost. che prevede (ancora) l’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge.

Il Presidente della Repubblica non è figura inviolabile e per quanto questo sia difficile da comprendere alle nostre religiosissime e pie menti, viviamo ancora, salvo dimostrazioni contrarie, in un Paese faticosamente laico.

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