Nelle aule di tribunale spesso il silenzio più cupo si scontra con rumori assordanti e forti. La terza via, più sobria e decente, è rara. Il silenzio contro il rumore delle lacrime e delle urla di gioia o dolore. Urla scomposte e indegne hanno salutato, all’inizio di questa settimana, anche la lettura della sentenza della seconda sezione della Corte d’Assise d’Appello del Tribunale di Milano che ha condannato gli imputati accusati di far parte delle nuove Brigate rosse.

In realtà, questo processo viene dopo una decisione della Cassazione del febbraio scorso che ha annullato le condanne già inflitte in un precedente processo di appello, per meglio definire la natura delle nuove Brigate rosse e della loro azione. I giudici della Suprema Corte nella loro motivazione hanno rilevato la genericità della finalità di terrorismo contestata ai diversi imputati, durante il primo processo della Corte d’Assise, che riconobbe nel 2010 la finalità terroristica (art. 270 bis c.p.) e non la semplice associazione sovversiva (art. 270 c.p.), non dimostrando però in maniera sufficiente «il proposito di intimidire indiscriminatamente la popolazione, l’intenzione di esercitare costrizione sui pubblici poteri», «la volontà di destabilizzare» e «distruggere gli assetti istituzionali del Paese». Il processo che si è concluso questa settimana non ha fatto altro che conformarsi, cautamente, alle interpretazioni della Cassazione, frantumando i capi di imputazione e riducendo gli stessi intorno all’art. 270 c.p., già richiamato. Ma, è a questo punto che si pone un problema molto serio per l’Italia e le sue istituzioni: definire cosa sia “terrorismo”. Le azioni, infatti, susseguitesi nel tempo e che hanno fatto sorgere il processo contro le nuove Brigate rosse, sono state, tra le altre, la progettazione di un attentato alla sede di un grande quotidiano nazionale e un agguato mirato a ferire o uccidere il giuslavorista Pietro Ichino, assunto quale «rappresentante del capitalismo». Se questo non è terrorismo e non è valutabile alla luce dell’art. 271 bis c.p., quale “eversione dell’ordine democratico”, paradossalmente non si configura quale atto terroristico, neanche l’uccisione nel 2002 di un altro giuslavorista, Marco Biagi. Così come non sono “terroristiche” le azioni che hanno animato i recenti eventi di Genova contro il dirigente dell’Ansaldo. Forse, allora, c’è da chiedersi se il nostro Paese può dirsi finalmente immune dal terrorismo, ovvero se il gruppo delle nuove Brigate rosse nulla ha a che fare, dal punto di vista ideologico, con la follia terrorista delle vecchie Br. In tal senso, la coerenza, la limpidezza, ma soprattutto l’oculatezza di uno Stato di diritto divengono gli unici strumenti per tramutare le urla scomposte e indegne di imputati e di “liberi” cittadini, in afone smorfie labiali.

 

Nicola del Piano

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