Assolto per non aver commesso il fatto. Una sentenza ampiamente prevista, quella emessa dalla prima corte di assise di appello di Roma nei confronti di Raniero Busco, l’uomo accusato, e condannato in primo grado a 24 anni di reclusione, per l’omicidio dell’ex fidanzata Simonetta Cesaroni, massacrata con 29 coltellate il 7 agosto 1990 nell’ufficio dell’Associazione degli Ostelli della gioventu’ in via Carlo Poma.

E l’omicidio di via Poma, che certamente puo’ essere annoverato tra quelli che hanno maggiormente destato l’attenzione dei mass media, rimane, per il momento, senza un colpevole. Nel paese in cui le sentenze in processi indiziari sono spesso subordinate ai risultati peritali, anche in questo caso, e del resto era gia’ successo in primo grado, a fare la differenza e’ stata una maxiperizia. La stessa, quella del professor Corrado Cipolla D’Abruzzo, che ha sconfessato i colleghi consulenti della procura, i quali avevano parlato di morso sul capezzolo sinistro di Simonetta compatibile con l’arcata dentale di Busco e di tracce di dna dello stesso sul corpetto e sul reggiseno. Nessun morso sul capezzolo, sono state le conclusioni di Cipolla D’Abruzzo, mentre per quanto concerne le tracce biologiche ci sono dna non solo di Busco, ma anche di altri due uomini. Conclusioni non condivise dal sostituto procuratore generale Alberto Cozzella il quale, nel chiedere la conferma dei 24 anni di reclusione decisi in primo grado, aveva ribadito che – come dimostrato anche nel processo di primo grado da tutti i consulenti – quelle ”lesioni sono esito di un morso” e che il Dna individuato sul corpetto e reggiseno della ragazza ”appartiene” all’ex fidanzato della Cesaroni, ovvero Busco. L’assoluzione dell’imputato era comunque attesa. E lo era anche perche’, come dichiarato oggi dal medico legale Angelo Fiori, uno dei periti che lavoro’ sul delitto di via Poma, in primo grado ”non sono state tenute in considerazione tutte le prove, ma si e’ data un’importanza esagerata al solo Dna”. ”Questa sentenza – ha aggiunto l’esperto – sottolinea come non si possa usare solo il Dna nei processi, ma vadano prese in considerazione tutte le prove”. Quello di oggi e’ solo l’ultimo atto, ma sicuramente non quello finale, di un iter investigativo lungo e tormentato. Intanto il pg Cozzella impugnera’ la sentenza emessa, dopo una camera di consiglio di due ore e mezzo, dal collegio presieduto da Mario Lucio D’Andria. ”All’esito del deposito delle motivazioni – ha commentato il rappresentante dell’accusa – decideremo il da farsi. Non e’ escluso, anzi assolutamente probabile, che ricorreremo in Cassazione”. Via Poma: un caso, dunque, ancora irrisolto, un mistero infinito. Tanti i personaggi apparsi all’orizzonte di un’inchiesta che si presento’ subito complessa: il portiere dello stabile Pietrino Vanacore, prosciolto nella fase delle indagini preliminari dall’accusa di favoreggiamento e morto suicida alla vigilia dell’ udienza del processo di primo grado in cui doveva comparire come testimone; il datore di lavoro della vittima Salvatore Volponi e Federico Valle, il nipote dell’architetto Cesare che abitava nel palazzo. Tutti e tre sono usciti di scena, scagionati, e su via Poma e’ caduto il silenzio fino al 2004, quando grazie a progressi tecnologici i Ris hanno riesaminato i reperti, conservati per anni, e le indagini sono state riaperte con il successivo coinvolgimento di Busco. Era il 2007 e il Dna sembrava inchiodarlo. Oggi, dopo 5 anni, e’ un uomo innocente.

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