Governo battuto al Senato sulle pensioni dei manager pubblici e si vede cancellare la norma che consentiva trattamenti previdenziali privilegiati anche ai dirigenti pubblici che con il tetto agli stipendi avevano subito una riduzione delle retribuzioni. Un provvedimento che permetteva nonostante il ‘taglia-stipendi’ vedersi calcolare la propria pensione sui vecchi stipendi e non su quello ridotto.

La norma bocciata serviva da clausola per evitare contenziosi, alla luce di una serie di sentenze della Corte costituzionale sulla previdenza, in base alle quali le norme così come emergono potrebbero essere illegittime. Il decreto cosiddetto Salva-Italia aveva imposto un tetto allo stipendio dei manager pubblici, pari al “trattamento economico del primo presidente della Corte di cassazione”: circa 300.000 euro all’anno. Nel decreto sulle commissioni bancarie il governo ha inserito una clausola che esclude che il nuovo e più basso stipendio faccia parte della base di calcolo della quota di trattamento pensionistico da liquidare secondo il sistema retributivo (naturalmente, invece, esso conterà ai fini della quota da liquidare secondo il sistema contributivo). La clausola inserita dal governo nel decreto sulle commissioni bancarie e bocciata da una maggioranza inusuale (Idv, Lega e Pdl), era stata voluta per rispondere ad alcune obiezioni emerse dopo il decreto Salva-Italia, in particolare quelle che ricordavano alcune sentenze della Corte costituzionale. Il pronunciamento più famoso della Consulta in materia è la sentenza 264 del giugno 1995 che ha concesso l’esclusione, dal computo della retribuzione pensionabile, di successivi trattamenti economici di misura inferiore; in particolare, la sentenza ha concesso l’esclusione alla sola condizione che il lavoratore avesse già maturato il requisito contributivo (anche se non ancora quello anagrafico) per la pensione.

 

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