Sono le 10.30 quando l’odore acre dei primi lacrimogeni sparati a Giaglione annuncia quella che sarà la battaglia per la riconquista del cantiere della Maddalena e soffoca l’illusione di un assedio pacifico e non violento alla recinzione della Ltf.
I cortei ufficiali dei No Tav con sindaci e valligiani 1 sono ancora lontani quando la montagna che sovrasta il vecchio museo archeologico che è il cuore del primo cantiere dell’Alta Velocità comincia ad animarsi. Dalla cima, attraverso sentieri tortuosi perduti tra gli alberi, scendono gruppi di ragazzi coi volti mascherati e vestiti di nero. Molti di loro hanno passato la notte a Ramat, nel bosco hanno nascosto ogni tipo di arma: roncole, bottiglie di ammoniaca, barattoli di resine incendiarie, estintori, tondini di ferro tagliati in modo da poter essere lanciati, biglie e bulloni. I carabinieri dei Cacciatori di Sardegna che hanno perlustrato i boschi nel buio hanno trovato decine di depositi di queste armi “improprie” ma letali nascosti sotto i cespugli. I primi black bloc compaiono sul costone che fronteggia il musero archeologico quando è quasi mezzogiorno. Sono ad un centinaio di metri dalla recinzione del perimetro, 800 metri di filo spinato e muretti di new jersey montati in tempi record dagli operai della LTF. Roteano fionde antiche ma con una sorprendente gittata. Della Tav non gliene importa nulla probabilmente, cercano solo lo scontro. Lanciano le prime biglie di ferro, i primi bulloni contro i 900 uomini tra polizia, carabinieri, finanzieri che presidiano il cantiere e l’autostrada, chiusa già alle 10 dopo fitti lanci di pietre. Il primo ferito è un operaio della Lft, Giuseppe L., colpito ad un braccio da una grossa pietra. In pochi minuti tra carabinieri, polizia e finanzieri i feriti si contano a decine. Alla fine della giornata saranno quasi duecento, alcuni dei quali gravi. L’assalto dalla montagna è incessante: black bloc, anarchici e antagonisti colpiscono poi si rifugiano tra gli alberi. Impossibile inseguirli. Un carabiniere rimasto isolato viene catturato e disarmato. Lo liberano dopo averli preso la pistola che sarà restituita solo a fine giornata ma senza caricatore. Contro le forze dell’ordine dall’alto arriva una pioggia di pietre, bombe carta, razzi pirotecnici fatti esplodere a grappolo. Carabinieri e polizia hanno regole d’ingaggio ferree: l’ordine è di evitare il corpo a corpo. Agli assalti possono rispondere con il getto di un idrante che però puntato contro l’alto si rivela poco efficace, con il lancio copioso di lacrimogeni e cariche contenute. La battaglia dura per ore mentre la stanza al pianterreno del museo è trasformata in un ospedale da campo che raccoglie le decine di feriti. Carabinieri colpiti da pietre, poliziotti ustionati da bombe carta, finanzieri intossicati dal ritorno dei lacrimogeni. I plotoni antisommossa devono correre da un punto all’altro del perimetro perché altri gruppi mascherati premono contro la recinzione dal lato del viadotto. “Sin che durano i lacrimogeni possiamo tenerli lontani – ammette un funzionario di polizia – dopo non so…”. L’obiettivo degli assalitori è la recinzione, la presa del cantiere. Sono un migliaio tra i boschi, gente arrivata da tutta Italia e persino dall’estero. Ci sono spagnoli, tedeschi, francesi. Tutti hanno raccolto l’ appello di Alberto Perino, il leader dei No Tav che si paragona ai partigiani e sono arrivati in Val di Susa con un obiettivo preciso: la guerriglia contro le forze dell’ordine. Polizia e carabinieri riescono a catturarne cinque: un meccanico di Maranello, un facchino di Modena, un disoccupato di Venezia, un ragazzo di Pescara che negli scontri è stato ferito al volto e una studentessa di Parma. “Tutta gente che non c’entra nulla con la Val Susa” sottolineano polizia e carabinieri. Tra i manifestanti ci sono diversi feriti, uno studente, colpito all’addome da un lacrimogeno, viene portato via e ricoverato in ospedale. Le sue condizioni sono gravi, ma non è in pericolo di vita. Molti altri sono intossicati dai gas. I manifestanti denunciano l’uso di proiettili di gomma, smentiti subito dalla questura di Torino, e di lacrimogeni “proibiti”. Alla fine, nell’ospedale da campo allestito alla baita del Giaglione, “riconquistata” nelle prime ore della battaglia, si conteranno una quindicina di feriti. Altri hanno preferito scendere a valle e farsi medicare privatamente. Dall’alto i black bloc fronteggiano i plotoni e prima di nascondersi nei boschi urlano slogan anarchici (“10, 100, 1000 Nassyrya”) o si abbassano i pantaloni e mostrano le terga nude. Finalmente, verso le 17 con l’aiuto di un bulldozer manovrato da un agente romano, polizia e carabinieri riescono a liberare il costone che fronteggia il museo. La recinzione è salva. I reparti seguono lo scavatore sin dentro il bosco, spingendo lontano gli aggressori ai quali non resta che ripiegare.