Sono terminate domenica 30 ottobre all’Augusteo le repliche de “Il giudizio universale”, per la regia di Armando Pugliese, su sceneggiatura originale di Cesare Zavattini. Come il film del ’61, diretto da Vittorio De Sica, del quale è l’adattamento teatrale, anche quello di Pugliese è uno spettacolo corale, che conta su diversi nomi della scena teatrale campana e nazionale. Sulle musiche di Giuliano Sangiorgi, danzano le interpretazioni di Mimmo Esposito, Ernesto Lama, Antonio Milo, Imma Villa, Gigio Morra, Francesco Paolantoni e Giacomo Rizzo, per citarne soltanto alcuni.

Sebbene sia difficile prescindere dal confronto con l’omonimo cinematografico, cercheremo qui di attenerci a considerazioni strettamente relative alla messa in scena teatrale, nella quale il disoccupato Salvatore Speranza (Mimmo Esposito) è alla disperata ricerca di una raccomandazione per ottenere il posto di guardarobiere al San Carlo. Un maestro d’orchestra, un regista, un uomo politico, una famiglia ricca e influente, chiunque purché tracci una firma, una frase, uno “scippo” illeggibile su un foglio di carta, rinnovando nel disoccupato la speranza (alla quale è condannato dal suo stesso nome), e rimettendo ogni volta in moto la sua inutile corsa circolare.

Speranza è il raccordo fra diversi quadri, che vanno dalla miseria di una madre che vende il proprio figlio con pochi rimorsi, alla camera da letto di un vizioso maestro; dal mondo sotterraneo delle cucine e dei camerieri, agli sfavillanti ed ipocriti salotti bene.

La scenografia riflette e suggerisce la netta spaccatura fra un mondo di sopra, luminoso e ricco, ed uno di sotto, tetro e faticoso. Come già nell’apprezzatissimo Masaniello, Pugliese ripropone la mobilità del palco e delle scene, spesso mosse dagli attori stessi, i cui ruoli diventano parte integrante del sezionamento della realtà, in un sinolo che mostra l’inscindibilità di forma e materia. Come l’uomo crede di plasmare il proprio destino, anche quando ne è intrappolato, così gli attori muovono la scena che dà loro identità cercando in essa il proprio spazio significante.

E trovare spazio, in questo spettacolo, non era affatto facile. Gli attori sono molti e dotati di molti talenti. La ditta è promettente, ma l’uso di tanto materiale non è, purtroppo, né costante né convincente. La distribuzione dei ruoli e delle scene sembra infatti rispondere più all’esigenza di non far torto ad alcuna prima donna, che a quella di tenere un ritmo serrato ed avvincente.

Il risultato è uno spettacolo lungo e largo, privo di una risoluzione evidente, e che affida la speranza di un messaggio alla circolarità della vicenda ed alla frase pronunciata sul finale da Giacomo Rizzo, secondo il quale non vivremmo come vogliamo, ma come possiamo.

Il tentativo di fare di Speranza il filo conduttore fra le vicende delude in quanto l’attore è fiacco, sempre uguale a se stesso ed al cantilenante Salvatore emigrante del vecchio sketch con Biagio Izzo.

Le scene corali, seppur belle e basate sulla duttilità dei molti interpreti, non hanno il coraggio di trasformare l’opera in un musical, finendo con l’essere spesso inspiegabili, e con l’appesantire un equilibrio già difficile.

Ad allungare il brodo dell’ultima replica si segnala una lunga interruzione dopo l’intervallo, giustificata da un Paolantoni in proscenio che la giustifica come un “guasto tecnico”, ma in realtà dovuta ad una sollevazione delle maestranze per questioni sindacali. L’episodio risulta tanto più rilevante se si pensa che lo spettacolo ha, fra le altre, l’intenzione di denunciare lo stato di indigenza del teatro italiano.

Si segnala senza dubbio la performance di Ernesto Lama, sempre brillante e duttile, nonché la presenza del soprano Minni Diodati, la cui prova a metà fra il lirico ed il comico convince e diverte.

La sensazione complessiva è quella di una serie di spunti buoni, ma non organici, fra i quali nemmeno l’episodio tanto atteso del giudizio universale riesce a creare suspense, tanto che il ritorno dei protagonisti ai loro vizi quotidiani, anche dopo aver ascoltato la parola di Dio, non sorprende come dovrebbe, e l’effetto di rassegnata appartenenza ad una terra perduta è già sfumato.

Il facchino e la ragazza della buona società, innamorati per tutto lo spettacolo, sono gli unici che riescono a superare la frattura fra i due mondi, partecipando al Gran ballo dei Disoccupati, la cui insegna luminosa si spegne alla fine lasciando in luce soltanto le ultime lettere:“-pati”. Forse perché tutto si riduce ad un sereno sopportare, ad un tollerare la sofferenza, ad un lasciarsi andare alla sopportazione.

Fiorella Federici

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui