CASERTA – Il laboratorio Millepiani ha diffuso un documento sui fatti del 15 ottobre a Roma.  “Il 15 ottobre è una data che resterà impressa nella memoria di molti e molte di noi per diverso tempo. Ogni paragone con il passato, con Genova ad esempio, è fuorviante. Con questo non intendiamo esaltare il “nuovo che avanza”. Troppe volte in questi anni abbiamo ripetuto, fino alla noia, che “nulla più sarebbe stato come prima”.

E, invece, il copione si è ripetuto, più o meno identico, diverse volte. Come in una sorta di litanìa collettiva, il 15 ottobre è cresciuto nell’immaginario di tutti/e noi come una data apocalittica e decisiva, dopo la quale “qualcosa di nuovo” sarebbe senz’altro accaduto (la Rivoluzione, il Partito che ritorna, nuove Elezioni, nuovo Sindacato, ecc…). Ma “nuovo” e “vecchio” sono categorie ormai fuori uso all’interno della dimensione del tempo che ci tocca vivere. Un po’ come le facili scorciatoie interpretative dicotomiche tra “buoni” e “cattivi”, “violenti” e “non violenti”, buone per i tribunali della coscienza, prima ancora che per quelli della repubblica. Bisogna guardare all’esperienza del 15 ottobre non come ad un appuntamento salvifico, gravido di messianismo, ma come ad un agente chimico di contrasto, di quelli che si usano nelle radiografie e che servono a modificare il modo in cui una regione del corpo appare in un’immagine medica. Attraverso la piazza del 15 ottobre abbiamo avuto la diagnosi più dettagliata dell’impatto sociale della crisi economica, del modo in cui essa seziona le molteplicità sociali scatenando reazioni divergenti. Moralismi, buonismi e rese dei conti devono lasciare il campo all’analisi politica. Da Genova in poi, abbiamo imparato che, all’interno dei movimenti, il “tutto” non coincide mai con la somma delle sue “parti”. C’è sempre un resto, uno scarto, un’eccedenza. Abbiamo imparato che un corteo, per quanto possa essere promosso da soggetti più o meno organizzati, è sempre un magma incandescente, che eccede continuamente le forme più o meno rappresentative che si è dato. E infatti, chiunque avesse una propria sceneggiatura di come doveva andare il corteo del 15 si è dovuto ricredere. E non parliamo solo del comitato che l’ha promossa. Parliamo anche di quelle organizzazioni che, in un modo o nell’altro, hanno, se non innescato, quantomeno auspicato che le cose andassero come sono andate. Tanto chi voleva il “percorso condiviso”, quanto chi, invece, la forzatura, si è dovuto ricredere di fronte alla dinamica che si è scatenata in piazza. In mezzo a loro, c’è stato il guazzabuglio di una generazione di giovanissimi, che ha scavalcato non solo i fautori delle “pratiche condivise”, ma anche quelli del riot a tutti i costi. Da questo punto di vista, la manifestazione del 15 ottobre pone con urgenza una discussione pubblica non più rinviabile, non solo all’interno dei movimenti, ma nell’intero paese e nelle forme istituzionalizzate della politica (almeno di quella parte che ancora si definisce “di sinistra”). Una discussione senza ipocrisie e moralismi, senza giustizialismi e dogmi securitari. Una discussione che rifiuti la gestione delle piazze come un problema di ordine pubblico. E soprattutto, il peana delle “legge speciali” da approvare il giorno dopo, tanto per gettare benzina sul fuoco. Questo paese deve uscire dall’ipocrisia perbenista che vede in ogni turbolenza sociale una regia occulta, o peggio ancora un’arena per teppisti e criminali. Una piazza è un sintomo. Deve capirlo quella parte della sinistra istituzionale, che intende partecipare ai cortei senza sporcarsi giacca e cravatta, in modo da presentarsi pulita alle prossime elezioni. Deve capirlo chiunque oggi abbia a cuore la possibilità di aprire un varco nella crisi, dove far passare istanze di democrazia e di costruzione di legami sociali che sappiano opporsi alle politiche di austerity imposte dai burocrati della governance europea. Dal punto di vista dei movimenti, invece, occorre senza dubbio una riflessione complessiva sul problema delle pratiche e della democrazia. E’ certo che certi “modi di stare in piazza” sono controproducenti per gli stessi movimenti. Quante di quelle centinaia di migliaia di persone, dopo quanto è accaduto, preferiranno tornare a casa propria? Quanti spazi di agibilità collettiva verranno adesso a restringersi? Senza considerare la sponda offerta ai media per cavalcare la distinzione tra “buoni” e “cattivi”, alimentando così la falsa coscienza di chi pensa che dietro gli scontri ci sia una regia occulta estranea a “quei bravi ragazzi” che volevano solo esprimere “educatamente” le proprie opinioni. Insomma, se dovessimo misurare l’efficacia del casino successo a Roma in termini politici, il giudizio non potrebbe che essere decisamente negativo. Si badi bene, qui il nodo non è “violenza sì, violenza no?”, ma quello che pone una domanda di altra natura: attraverso quali pratiche condivise si può raggiungere congiuntamente l’obiettivo di esprimere la radicalità necessaria a rompere il recinto della crisi finanziaria e quello del consenso che allarga i nodi della partecipazione e del protagonismo nell’impegno politico quotidiano? Ciò che risulta davvero sconcertante nell’esperienza del 15 ottobre è l’assenza completa di comunicazione tra chi “spaccava tutto” e chi si dirigeva in piazza S. Giovanni per terminare il corteo con un eventuale “acampada”. In mezzo, tra quelle due opzioni, il vuoto. In quel vuoto, noi pensiamo che oggi bisogna mettere la testa. E lavorare politicamente. Perchè se è vero che non è tollerabile che ci si comporti da “parassiti” nei confronti di un corteo, approfittando della protezione collettiva per esprimere la propria rabbia repressa, nemmeno si può accettare che una piazza risponda con la delazione o, peggio ancora, con la richiesta di carcerazioni di massa! Una voragine così ampia e profonda, francamente, non l’avevamo mai vista! Per costruire alternative politiche alla violenza demente (nel senso di “priva di intelligenza”) e alla, altrettanto demente, delazione generalizzata, c’è bisogno di costruire dispositivi collettivi in grado di canalizzare la rabbia verso forme di conflitto non (auto)distruttive. Che allarghino il consenso e la partecipazione di massa. Che sappiano occupare quello spazio politico in cui l’azione dei movimenti interagisce con gli stessi nessi istituzionali in autonomia; per allargarli, laddove è possibile, o per contestarli, laddove essi si rivelano impermeabili. In questa “terra di mezzo”, sia chiaro, nessuno possiede in questo momento la mappa necessaria ad orientarsi. In questo navigare a vista, che caratterizza l’esperienza politica dei movimenti post- novecenteschi, dobbiamo imparare che i riots sono il sintomo e in nessun modo la soluzione del problema. Che la costruzione di spazi politici “veri”, radicati nel tessuto sociale, e non le episodiche esplosioni di rabbia incontrollata, passa attraverso un lavoro quotidiano paziente e meticoloso. Tutti noi siamo stati più o meno colpiti nel constatare la giovanissima età di quanti, con volto coperto e spranghe alla mano, si tuffavano nel guazzabuglio alla ricerca dello “scontro per lo scontro”. Gli stessi giovanissimi, alcuni dei quali, probabilmente, rientrando nelle loro case, avranno ripreso il loro posto nella routine quotidiana, anestetizzati da una giornata di conflitto nella quale la dimensione “estetica” dello scontro (anche qui un’altra sceneggiatura) ha assorbito quell’energia e quella rabbia quotidiana necessaria alla trasformazione della propria vita e dei propri luoghi. Un movimento ha bisogno di tempo per crescere. Ha bisogno di forza e anche di intelligenza. Ha bisogno dell’intelligenza della forza. Forza e violenza, secondo noi, si oppongono decisamente. Più si è forti e meno si è nella condizione di essere violenti. Più aumenta la consapevolezza di sé e della propria forza (simbolica e fisica) e più un movimento può iniziare la strada dell’esodo dalla crisi finanziaria. Con determinazione e senza “metafisiche” da violenti e non violenti. Dobbiamo lavorare politicamente per far comprendere che nessuna rivoluzione può essere all’altezza del compito che abbiamo, di fronte alla crisi del capitalismo, se non partirà da trasformazioni nelle forme di vita, nel quotidiano. Se alla violenza bruta di un individualismo esasperato, superficie che accoglie il riot come proprio liquido amniotico, non sapremo opporre la forza costituente dell’intelligenza collettiva che, nel rifiuto della povertà imposta, scopre la ricchezza dell’essere insieme, del costruirequi e ora altra società e altra democrazia (in pratica, un’altra forma di vita, più ricca della precedente).

 

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