I carabinieri del Nucleo investigativo di Palermo hanno arrestato sette persone con le accuse di associazione mafiosa ed estorsione aggravata. Il blitz, coordinato dalla Dda guidata dal procuratore Maurizio de Lucia, ha colpito la ‘famiglia’ mafiosa di Rocca Mezzomorreale (Pa) e i suoi vertici, già condannati in via definitiva e tornati liberi dopo aver scontato la pena. In cella sono finiti anche uomini d’onore riservati, sfuggiti finora alle indagini, che sarebbero stati chiamati in azione solo in momenti di criticità per la cosca. Per 5 indagati è stato disposto il carcere, per due i domiciliari. L’operazione, condotta tra Riesi, nel nisseno, e Rimini, ha consentito di smantellare la famiglia mafiosa di Rocca Mezzomonreale, “costola” del mandamento palermitano di Pagliarelli, ed ha confermato, ancora una volta, le storiche figure di vertice, già in passato protagoniste di episodi rilevantissimi per la vita dell’associazione mafiosa, come la gestione del viaggio a Marsiglia del boss Bernardo Provenzano per sottoporsi a cure mediche o la tenuta dei contatti con l’ex latitante trapanese Matteo Messina Denaro. Gli arrestati sono: Pietro, Gioacchino e Angelo Badagliacca, Marco Zappulla e Pasquale Saitta. Ai domiciliari sono andati Michele Saitta e Antonino Anello. Si allunga la lista dei fiancheggiatori del boss Matteo Messina Denaro finiti sotto indagine. Nel registro degli indagati sono stati iscritti Vincenzo e Antonio Luppino, figli di Giovanni, l’incensurato che ha accompagnato il capomafia alla clinica Maddalena, dove entrambi, lunedì, sono stati arrestati. I carabinieri hanno perquisito le abitazioni dei due Luppino: nell’appartamento di Vincenzo è stata trovata una sorta di stanza nascosta che stata perquisita ed è risultata vuota. Nei giorni scorsi in un’area recintata di proprietà dei Luppino la polizia ha trovato la Giulietta utilizzata dal boss per i suoi spostamenti. “C’è lo statuto scritto … che hanno scritto i padri costituenti”: così afferma uno dei boss arrestati, non sapendo di essere intercettato. Una rivelazione che i magistrati ritengono importantissima e che conferma l’osservanza da parte dei capimafia di ferree regole, una sorta di “Costituzione” della mafia. I boss continuano a rispettare le vecchie “regole” mafiose e a imporne l’osservanza agli affiliati, dunque. Le “cimici” piazzate dagli investigatori hanno potuto ascoltare le conversazioni degli indagati che spesso si richiamavano al rispetto di principi mafiosi arcaici, un vero e proprio “statuto” scritto dai padrini. “Principi” che i capimafia continuano a considerare il baluardo dell’esistenza stessa di cosa nostra. Nell’ambito della conversazione registrata, definita dal gip “di estrema rarità nell’esperienza giudiziaria”, si è più volte fatto richiamo all’esistenza di un “codice mafioso scritto”, custodito gelosamente da decenni e che regola, ancora oggi, la vita di cosa nostra palermitana.