Sono colpiti negli affetti e possono presentare denuncia, e ottenere risarcimento o comunque ‘soddisfazione’, i genitori che vengono offesi ‘di riflesso’ con attacchi alla onorabilità delle loro figlie. Lo sottolinea la Cassazione che ha confermato la condanna per ingiuria nei confronti di un uomo che incontrando al mercato un impiegato del Comune di Agropoli, con il quale aveva un ‘conto’ in sospeso, gli aveva detto che la figlia “è una puttana, e tu saresti un cornuto”.
La giovane donna in questione, che peraltro non era presente all’alterco tra il genitore e il ‘conoscente’, non aveva presentato alcuna denuncia mentre suo padre Francesco aveva sporto denuncia. Ad avviso della Suprema Corte “quanto alla veste di persona offesa in capo al padre, è di palese evidenza che il contesto della frase rivolta a quest’ultimo fosse ingiuriosa proprio nei suoi confronti, avendo l’imputato Angelo Raffaele G. (56 anni) inteso colpire direttamente la parte civile nei suoi affetti familiari e costituendo il riferimento alla figlia proprio lo strumento per ledere l’onorabilità del padre”. Non ha dunque trovato fondamento la tesi dell’imputato che sosteneva che il padre non aveva alcun diritto di ritenersi parte lesa, semmai- ha tentato di sostenere davanti ai supremi giudici- era la figlia che doveva chiamarlo in causa. Quanto all’epiteto di ‘cornuto’, Angelo Raffaele G. ha fatto presente di averlo pronunciato “al condizionale” e dunque non sarebbe stato un insulto grave ma solo una espressione “blandamente ingiuriosa”. Anche sul punto gli ‘ermellini’ sono stati di diversa opinione e hanno risposto che “è del tutto inconsistente la tesi secondo cui un epiteto formulato al condizionale perderebbe valenza offensiva”. Così il ricorso dell’imputato è stato dichiarato “inammissibile” con ulteriore condanna a versare mille euro alla Cassa delle ammende. In questo modo è stato confermato il verdetto di colpevolezza per il reato di ingiuria emesso da Tribunale di Vallo della Lucania l’11 ottobre del 2011, dopo la pronuncia di primo grado del Giudice di pace di Agropoli del 10 giugno 2009. L’entità della pena non è riportata nella sentenza 37686 emessa dalla Quinta sezione penale e depositata oggi.












