La riforma Calderoli sull’Autonomia differenziata fa discutere, e dubitare, anche all’interno della maggioranza. Non tanto e solo sul merito – l’attuazione del federalismo prevista in Costituzione e sbandierata dalla Lega – quanto sul metodo. Decidere e definire i servizi e le prestazioni essenziali di ogni Regione, dalla scuola ai trasporti, senza neanche bussare alla porta della Camera e del Senato, ha un che di paradossale. Eppure è quanto si legge in un articolo della legge di bilancio, il 143, che rilancia la riforma del ministro leghista alle Autonomie Roberto Calderoli specificando che i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) dovranno essere definiti tramite un Dpcm. Cioè un atto amministrativo, che dall’aula non deve passare e non si può impugnare di fronte alla Corte Costituzionale. Di più: la norma leghista inserita in manovra non prevede coperture. Niente fondi, niente diritti (effettivi). Ma «una riforma attuativa del federalismo non può prescindere dalla garanzia della copertura di servizi universali come Sanità, trasporti, scuola e infrastrutture», spiega il vicepresidente della Camera di FdI Fabio Rampelli. Di qui le cautele – e qualche mugugno – dentro e fuori la coalizione di governo. A fissare i paletti ci pensa Lucio Malan, capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato. Con una promessa: «La voce del Parlamento non sarà silenziata». Così è però se per fissare i livelli minimi delle prestazioni si ricorre al Dpcm. Sigla ben nota agli italiani che per due anni, in tempo di pandemia, hanno visto normare ogni aspetto della loro vita, dalle passeggiate con il cane fino a grandi riforme sul fisco e la sicurezza, da un atto che non ha bisogno di controlli parlamentari, né prima, né dopo la sua adozione. «Quei Dpcm però limitavano diritti – specifica Malan a scanso di equivoci. I Dpcm annunciati nel piano Calderoli, invece, i diritti dovrebbero garantirli. E anche questo è un problema a sentire prime file della coalizione di governo. Come Roberto Occhiuto, governatore della Calabria di Forza Italia, protagonista delle trattative con il ministro leghista. «Non si può attuare una riforma del genere con un dpcm – risponde caustico – va fatta alla luce del sole, con il massimo coinvolgimento del Parlamento. In ballo ci sono i diritti sociali degli italiani». Ma gli altolà sono diffusi nella pattuglia forzista. Claudio Fazzone, esponente di peso nel Lazio, non usa i guanti: «Una vera riforma si fa dentro al Parlamento. Se l’aula deve solo ratificare i decreti perde la sua utilità». Più istituzionale, così impone dopotutto il ruolo di vicepresidente del Senato, il collega Maurizio Gasparri. Che anche sul merito ha da ridire: «Gli strumenti tecnici sono importanti, dalle leggi costituzionali alla legge ordinaria. Autonomia, presidenzialismo e riforma dei poteri di Roma Capitale devono andare di pari passo, come vagoni dello stesso treno. Patti chiari…». Se la Lega accelera – con un percorso a tappe forzate delineato nel Ddl Calderoli che prevede la fissazione dei Lep entro un anno, poi l’intervento di un Commissario – un gruppo trasversale di parlamentari chiede di rallentare. E di non essere scavalcato.

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