di Nicola Del Piano

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. A tale principio giunsero i padri costituenti allorché scrissero il terzo comma dell’art. 27. Vi è in tale articolo tutta la cultura e la storia d’Italia.

 Un Paese tra i primi a rifiutare la pena di morte e a credere fortemente nell’importanza della rieducazione del condannato, alla pena non come castigo, ma come risocializzazione. Concetti che sono tra i pilastri della nostra cultura giuridica. Concetti che mal si conciliano con i 65 suicidi avvenuti soltanto nel 2010 e con il numero esorbitante di detenuti nel nostro Paese: nelle 206 strutture italiane, i carcerati sono circa 67mila, mentre i posti regolamentari sono 45mila.

Nella Casa Circondariale di Napoli – Poggioreale, i detenuti, per il fatto di essere molti più di quelli che dovrebbero essere, trascorrono più di ventidue ore chiusi nelle celle. Rieducare lì è, di fatto, impossibile. Negli istituti di detenzione, vi sono soggetti che acquisiscono psicofarmaci e poliziotti penitenziari che cadono in depressione. Quanto grande risulta essere il danno per tante famiglie? Molti uomini e donne, quando finiscono di scontare la loro pena, vengono riconsegnati alla società peggiori di prima e, elemento più drammatico di tutti gli altri, con pochissime se non nessuna alternativa dinanzi a sé.

Varcando la soglia del carcere, molti detenuti che potrebbero essere recuperati subito, finiscono per perdersi inesorabilmente. Il carcere come discarica sociale è, dunque, il contrario di quello che dovrebbe essere. Non un luogo di rieducazione, ma qualcos’altro. Ed allora, non meraviglia, seppur lascia di stucco, che al recente sciopero della fame, promosso da Marco Pannella, pochi giorni dopo che il Presidente della Repubblica Napolitano aveva definito la situazione dei detenuti “una realtà che ci umilia in Europa”, hanno aderito per la prima volta anche i direttori delle carceri italiane.

Per comprendere tale “abisso tra questa realtà e il dettato costituzionale”, per riprendere le parole del Capo dello Stato, occorre comprendere che non sono gli italiani a commettere più reati, ma tale situazione è il risultato di una serie di leggi come la n. 189 del 2002 (la cd. Bossi-Fini) e la legge n. 49 del 2006 (la cd. Giovanardi-Fini). Tali leggi non hanno fatto altro che produrre un abnorme, inutile e dannoso ricorso alla custodia cautelare, con tutti i rischi che accompagnano tale situazione. L’ultima legge citata, ad esempio, ha inasprito le pene che riguardano l’uso degli stupefacenti, prevedendo la detenzione in carcere per soggetti che più che scontare una pena inframuraria, andrebbero curati in comunità, con il risultato che la popolazione carceraria è formata attualmente dal 30% di tossicodipendenti.

Del resto ed in tal senso, non bisogna dimenticare che il principio prima ricordato della funzione rieducativa della pena ispirò nel 1975 l’introduzione, nel nostro ordinamento, delle misure alternative alla detenzione, le quali, sostituendosi alle pene detentive, abituano il condannato alla vita di relazione e rendono più efficace l’opera di risocializzazione. In conclusione, urge una seria riforma del Codice Penale, per il quale di legislatura in legislatura si sono susseguiti vani tentativi di modifica.

In mancanza, ogni cambiamento risulterà illusorio, con altissimi costi, non solo in termini di danaro, per tutta la società, se, come notava Voltaire, Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri. E, dunque, quella nelle carceri italiane non è forse una lenta, ma inesorabile tortura? Le loro condizioni non rappresentano forse un mal celato riconoscimento della pena di morte da parte del Paese che prima di ogni altro l’aveva orgogliosamente respinta?

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