di Nicola del Piano
Davanti allo scempio del corpo di Mu’ammar Gheddafi, dinanzi a quelle immagini così dure e forti, immagini di guerra, il sentimento che prevale è quello della pietà. Pietà per un corpo vilipeso a quel modo, pietà per un anziano schiaffeggiato e condannato a morte.
E, poi, i sentimenti di una guerra, la vendetta e il riscatto di un popolo sotto dittatura da 42 anni e finalmente liberatosi di un tiranno spietato e feroce. Ed ancora, l’amarezza per l’impotenza della comunità internazionale. La fine tragica dell’autore del “Libro Verde” è l’epilogo più classico all’interno di dinamiche bellicose, e quindi il più comprensibile. Ma non è facile, e forse è impossibile, accettare o apprezzare gli assassini di quel vecchio. La nostra cultura giuridica non ce lo consente. Seppur consapevoli delle tremende dinamiche che caratterizzano una guerra, i nostri valori, i valori che vanno da Beccaria fino alla fine dell’illuminismo giuridico e che rappresentano le fondamenta della nostra democrazia, ci portano a considerare i processi, le aule di tribunale e la prudenza che caratterizza i nostri sistemi giuridici, piuttosto che i “processi” di piazza, i “processi” sommari e quant’altro sia in contrasto con tali regole di equità e giustizia. L’autore di quella atroce uccisione, pertanto, appare essere proprio colui che di tale atrocità ha sofferto in modo tragico. Come quando, negli Stati Uniti d’America, è la stessa autorità federale a consentire la condanna a morte di esseri umani. Un’assurdità, da un punto di vista giuridico. E’ stato, insomma, lo stesso colonnello libico a far sì che vi fossero uno Stato e un popolo senza Diritto e senza il rispetto delle più elementari regole che disciplinano i diritti umani, cadendo nella stessa mancanza di regole che lui stesso aveva contribuito a creare in maniera spietata, trovando la morte proprio in quello che chiamiamo “un processo di piazza”. E forse il fatto che la pistola che ha ucciso il vecchio Gheddafi sia stata proprio la sua calibro 9 placcata d’oro, è l’immagine più spiazzante ed emblematica di questo “suicidio” e di un Paese che per quasi mezzo secolo ha sofferto di un sistema giuridico depauperato di ogni forma di tutela dei diritti civili e politici. Che ha prodotto morti tremende e sommarie condanne che la tecnologia moderna non ci risparmia e che dimostrano quanto feroce, disumana e bestiale sia una civiltà senza il diritto. Sangue su sangue che deriva direttamente da quella richiamata mancanza di regole e cultura giuridica. Resta, dunque, la speranza che la rinascita libica abbia davvero inizio, e non tramite ridicoli scimmiottamenti dei Paesi dell’ovest del mondo, ma attraverso quegli stessi libici e la riscoperta di quella stessa cultura libica che esiste e che non aspetta altro che venire alla luce.