Il lustrascarpe che palleggiava con i calzini e divenne re, il bambino che aveva il nome elettrico di Edson e portò la luce sui campi; Arantes do Nascimento, il calciatore che ha segnato 1300 gol: uno così prezioso che venne rubato; che è in cento canzoni e mille romanzi e troppi film, che ha duettato con presidenti e papi (quattro), che è stato la regina di Svezia e quasi quella d’Inghilterra; che ha vinto tre Coppe del mondo (’58,’62,’70) con la nazionale brasiliana e due (per club) col Santos: il primo a diciassette anni, e a venti era già patrimonio nazionale, poi divenne anche uno stadio: quello di Maceió; che una volta fermò una guerra: quando il Santos andò a giocare in Africa, Zaire e Congo fecero pace per il tempo della partita; che è l’unico calciatore espulso a tornare in campo sostituendo l’arbitro a furore di popolo, l’uomo che era il monumento a se stesso, se c’era una onorificenza l’ha avuta, se c’era un premio gli è stato dato, così per copertine, muri e strade e piazze, statue e busti, videogiochi e leggi; il cui nome è stato il motore fisico e mentale di miliardi di corse verso una porta con un pallone. Pelé è morto, ieri all’ospedale Albert Einstein di San Paolo, all’età di 82 anni, da un anno e mezzo lottava contro un cancro al colon. Quello che per gli altri era difficile per lui era facile, tutta la sua vita è stata una volata di successi e conservazione di questi. Difficile separare Pelé dal calcio, difficile scindere il gioco e la vita, sono un solo corpo. Ogni volta che gli mostravano documentari o film sulla sua bella esistenza diceva: «non è pallone, ma vita». Pelé è stato il calciatore universale: «vede il gioco suo e dei compagni: lascia duettare in affondo chi assume l’iniziativa dell’attacco e, scattando a fior d’erba, arriva a concludere. Mettete tutti gli assi che volete in negativo, poneteli uno sull’altro: esce una faccia nera, un par di cosce ipertrofiche e un tronco nel quale stanno due polmoni e un cuore perfetti», così lo raccontava Brera. Nato in una casa povera da un calciatore sfortunato, João Ramos do Nascimento detto Dondinho, al quale promise di vincere i mondiali vedendolo in lacrime davanti all’impresa dell’Uruguay nel ’50. E ponendo fine, otto anni dopo, al Complexo de vira lata, definizione dello scrittore Nelson Rodrigues, per l’inferiorità brasiliana rispetto al mondo. Passò dalla strada al campo del Bauru, e lì lo vide correre e segnare Waldemar de Brito che lo portò al Santos e profetizzò anche tutto il resto: aveva quindici anni ma già attraversava le difese a folate e dribblava tutti come un antenato della playstation. Per Galeano era un corpo estraneo: «Quando avanzava di corsa, passava attraverso gli avversari come un coltello. Quando si fermava, gli avversari si perdevano nei labirinti che le sue gambe disegnavano. Quando saltava, saliva nell’aria come se l’aria fosse una scala. Quando batteva un tiro da fermo, gli avversari che formavano la barriera avevano voglia di piazzarsi alla rovescia, con la faccia rivolta alla porta, per non perdersi il golazo».

Pelé arrivò dopo altri soprannomi: Dico, come lo chiamavano lo zio e la mamma; e Gasolina che si deve ai compagni del Santos. È qui che divenne Pelé nome che non gli è mai piaciuto, perché quando aveva sei anni e faceva il lustrascarpe, il suo idolo era il portiere Bilé, che però non sapeva pronunciare e diceva Pilè, e tutti lo prendevano in giro ripetendogli Pelé segnando gol a nastro, fin dalla prima partita di esordio, una amichevole contro il Corinthians de Santo Andrade. Segnò anche all’esordio in nazionale contro l’Argentina. Era il 1957, aveva 16 anni, giocò il suo primo campionato da titolare che chiuse da capocannoniere (lo sarà per 11 volte). Cominciando la sua carriera di extracalciatore, bisogna ricordare 8 gol in una sola gara, contro il Botafogo. Per capire la portata del cammino di Pelé e di come vedeva la porta, bisogna ricordare che segnò 5 gol in un solo incontro per 6 volte, realizzò 4 gol in una singola partita 30 volte e per 92 partite fu autore di una tripletta. Trattandosi di Pelé, niente è normale e i gol più belli sono due, di cui uno rubato e l’altro perso dalle telecamere e ricostruito al computer attraverso i racconti: quello del ’59 allo stadio Rua Javari contro il Clube Atletico Juventus. Pelé superò quattro avversari con quattro «sombreros» consecutivi, e poi segnó. L’altro è «il gol della placa», (61) torneo Rio-San Paolo, il Santos vince 1-0 col Fluminese quando al 41′ Pelé guada tutto il campo, scarta sette avversari e segna. È considerato il gol più bello fatto al Maracanà. Quella rete venne filmata da due tv e da tre telegiornali, ma non esiste più. Fu rubata e sostituita con un’altra azione che entra perfettamente nel gioco. Forse era un sequestro temporaneo di gol con un riscatto da chiedere, un romanzo gialloro da scrivere: ad accorgersene un produttore e regista cinematografico, Anibal Massaini Neto, che collezionava gol di Pelé. È Neto che ha rifatto entrambi i gol, rendendoli immortali. Anche con la nazionale brasiliana ha segnato a valanga, 6 al suo primo mondiale, nel ’58 in Svezia, di cui una doppietta in finale contro i padroni di casa: il primo dei due gol, tra i migliori della storia dei mondiali, pallonetto a scavalcare il suo marcatore e poi tiro in porta. Nel ’62 si infortunò alla seconda partita contro la Cecoslovacchia, e toccò a Garrincha fare il Pelé. Nel ’66 segnando su punizione contro la Bulgaria divenne il primo calciatore ad andare a segno in tre mondiali differenti, poi i mondiali divennero quattro. Il resto del campionato lo giocò zoppicando ed evitando calci, non andò bene, e alla fine con l’eliminazione disse di non voler più giocare un mondiale. Purtroppo per l’Italia nel ’70 era di nuovo in campo in Messico. E tutti se lo ricordano arrampicarsi in cielo e segnare, crossare e dribblare, generando la più bella finta senza toccare il pallone, ai danni del portiere Ladislao Mazurkiewicz nella semifinale del 1970 contro l’Uruguay. Arrivò a quel mondiale non senza difficoltà, a riprova che la vita non è stata facile nemmeno per Pelé: João Saldanha, giornalista e allenatore, che aveva guidato il Botafogo, vedeva Pelé miope e attaccante, alla fine fu rimosso dalla guida della nazionale, arrivò ad allenare Mario Zagallo che si accertò che Pelé ci vedesse e che tornasse a giocare nella posizione che voleva, e ri-vinsero il mondiale. Perché Pelé non faceva la differenza, era la differenza. Amava essere un idolo. Era un nero disinteressato, anche se veniva percepito come sottomesso alla dittatura brasiliana, diverso da Muhammad Ali che invece si muoveva in contrapposizione come Maradona. È la stella nel buio della dittatura, brilla nelle imprese sportive e illumina il regime di Emílio Garrastazu Médici.

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