BENEVENTO – “La malavita organizzata, ostacolo per lo sviluppo democratico, economico e sociale del Paese” è il titolo dell’incontro con il magistrato Antonio Ingroia che si è svolto stamani  alla Facoltà di Scienze Economiche e Aziendali dell’Università degli Studi del Sannio. Sono intervenuti i professori Pierpaolo Forte, Riccardo Realfonzo e Rosario Santucci e il preside della Facoltà SEA, Massimo Squillante.

La presenza di Antonio Ingroia, in una Facoltà che ha attivato un master sulla gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata, in collaborazione con l’associazione Libera, rappresenta un’ulteriore occasione di riflessione sul tema della malavita organizzata e delle implicazioni della sua presenza nella società italiana.

La testimonianza di Ingroia, affidata alle pagine del libro-intervista “Io so”, ha ripercorso la sua esperienza di magistrato, in prima fila nella battaglia per la legalità e contro le mafie, accanto a uomini come Borsellino, Caponnetto  e Falcone.

“È cresciuta nel Paese la voglia di verità – ha dichiarato Ingroia -. I processi di svelamento della verità sono molto complessi e non sono merito di singoli professionisti ma di una comunità che concorre all’accertamento dei fatti realmente accaduti. Nel processo in Corte d’Assise, in corso a Palermo sulla trattativa Stato-mafia, per la prima volta vengono portati come imputati insieme ai capi mafiosi, dirigenti dei servizi segreti e rappresentanti politici. Non è escluso che nel prossimo dibattimento i politici chiamati come testi possano portare un notevole contributo. Il tema della verità – ha continuato – è direttamente collegato alla democrazia. Un Paese che non riesce ad accertare le verità ha una democrazia imperfetta. La magistratura sta svolgendo un’operazione di supplenza notevole. Una sola istituzione si sta occupando di una questione enorme. Compito che sarebbe dovuto spettare a specifiche commissioni d’inchiesta”. Il magistrato ha sollevato una forte accusa alla connivenza tra ceti criminali e classi dirigenti: “Fino ad ora la politica antimafia ha svolto solo un ruolo di contenimento e mai di eliminazione del fenomeno criminale che ha trovato terreno fertile nel sistema legale istituzionale. Le mafie sono diventate una componente del sistema Italia, con radici profonde nelle classi dirigenti del nostro Paese, prima meridionali e poi nazionali. Le mafie non sono solo un prodotto della sottocultura meridionale. La criminalità organizzata si è sviluppata al Nord con le stesse dinamiche, fatte di omertà e accettazione, e mancanza di rigetto, che hanno determinato per prima l’attecchimento al sud dell’Italia”.

La repressione penale ha un ruolo sicuramente fondamentale per rendere giustizia alle vittime e alla Repubblica, lesa nella sua dignità istituzionale. Ma è insufficiente. Serve per colpire chi ha commesso i reati, ma interviene quando il dramma della perdite di vite di servitori dello Stato e di eroi borghesi si è oramai consumato. Servono azioni che incidano sui patrimoni illegali come la confisca dei beni e la restituzione degli stessi alla società civile. Servono interventi preventivi, azioni di formazione e cultura perché il rispetto della legalità presuppone cittadini colti, educati, scolarizzati. Serve l’etica della responsabilità individuale e serve il lavoro.

 

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