Inflazione alle stelle, come negli anni Ottanta. E soluzioni dell’altro secolo: il recupero del fiscal drag, il drenaggio fiscale. Come? Indicizzando le detrazioni da lavoro dipendente. La norma esiste già: un vecchio decreto del 1989, poi aggiornato nel 1992. Farlo costerebbe, perché lo Stato perderebbe gettito: non a caso l’inflazione viene identificata come la tassa dei poveri. Tanto per fare un esempio, per indicizzare al 10% – cioè adeguare all’inflazione – in Italia ora siamo all’11,6% – tutte le detrazioni servono 2,6 miliardi. Spieghiamo bene. Cos’è il fiscal drag? Quel fenomeno fiscale per cui in presenza dell’inflazione il salario reale si svaluta, perde potere d’acquisto: puoi comprare meno cose, a parità di reddito. Nello stesso tempo la pressione fiscale si alza perché calcolata sul salario nominale: di fatto è come pagare più tasse perché la retribuzione è la stessa solo in apparenza, in realtà vale meno. Il drenaggio fiscale si attiva poi anche quando il salario aumenta – perché nel frattempo vengono rinnovati i contratti nazionali, per recuperare un po’ dell’iper inflazione – e si scavalla uno scaglione Irpef, finendo in quello superiore. Anche in questo caso, le tasse risucchiano quell’aumento in modo più che proporzionale e alla fine al lavoratore resta solo la beffa di aver incassato un aumento di stipendio fittizio, perché mangiato dall’inflazione e dal fisco. La metà dei lavoratori dipendenti privati italiani – 6,8 milioni – attende il rinnovo del loro contratto: potrebbero incappare in un salto di aliquota e quindi in un doppio drenaggio fiscale. Facciamo un esempio: un reddito da 14.500 euro nel 2021 rientrava nello scaglione Irpef del 23%. Se questo reddito viene adeguato all’inflazione del 2022, poniamo pari all’8%, passa allo scaglione successivo e quindi paga il 25% di Irpef. In apparenza ha recuperato potere d’acquisto – anche se nessun contratto nazionale viene rinnovato al 100% dell’inflazione – ma in realtà sta perdendo soldi perché paga più tasse. Anche senza salto d’aliquota (il passaggio tra 23 e 25% per il rinnovo del contratto), questo reddito da lavoro in ogni caso paga la tassa dell’inflazione allo Stato: la pressione fiscale per lui aumenta perché il suo reddito perde potere d’acquisto. Proprio per questo la Cgil propone di rispolverare quel vecchio decreto del 1992 e andare ad indicizzare tutte le detrazioni da lavoro percepite dai dipendenti (anche pubblici) che nel 2020 – ultimo dato fiscale disponibile – valevano 26 miliardi. “Insieme chiediamo anche il taglio del cuneo contributivo di cinque punti, così da dare una mensilità in più ai lavoratori in questa fase così difficile”, spiega Gianna Fracassi, vicesegretaria generale della Cgil. “L’indicizzazione introduce una sorta di automatismo nella revisione delle detrazioni e facilita anche il rinnovo dei contratti nazionali, evitando che gli aumenti siano invisibili o non convenienti per il lavoratore. Tra l’altro si prende a riferimento l’indice dell’inflazione Foi per famiglie di operai e impiegati e non l’Ipca applicato al rinnovo dei contratti che non tiene conto della componente energetica”. Al momento non è previsto alcun tavolo su salari e contrattazione, benché invocato da sindacati e industriali. Giovedì le parti sociali vedranno la ministra del Lavoro Marina Calderone sul tema della sicurezza sul lavoro e se ne comincerà a parlare. Ma per indicizzare le detrazioni e anche tagliare il cuneo contributivo servono risorse che al momento, dopo una legge di bilancio da 35 miliardi, il governo non ha.

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