di Antonio Fontana

Nella sala riunione dell’Istituto Tecnico Industriale A.Volta di Aversa, nella ricorrenza di onomastici e compleanni di operatori scolastici, il tavolo grande veniva sempre riempito di “guantiere” con paste e altri dolci offerti dal “festeggiato” di turno. Il 19 marzo del 1994 ( giorno in cui si festeggia San Giuseppe) tale consuetudine determinò l’ attesa per l’arrivo di Don Giuseppe Diana, insegnante di religione, che certamente avrebbe fatto arrivare le “polacche” calde, acquistate nella nota pasticceria di via Roma, facendo una breve sosta con la sua Golf, nel percorso da Casale ad Aversa. Quei fagotti dolci, ripieni di crema, le “polacche”, erano il pre-caffè che Peppe, assieme a me od altri amici, solitamente consumava al bar posto appena fuori del cancello della Scuola. Tutto ciò non avvenne quella mattina: don Diana era stato ucciso nella sagrestia della chiesa di San Nicola di Bari di Casal di Principe, alle 7. 25, mentre si accingeva a celebrare la messa; un killer della camorra lo assassinò a colpi di pistola, Perché? Come è possibile? Queste le domande che mi assalirono unitamente allo sgomento, all’angoscia e alla incredulità: una cupezza angosciante mi spinsero a tornare subito a Casale dove ebbi la conferma della sua morte. Tornai a casa e ne uscii solo per i funerali: non avevo voglia di vedere nessuno, provavo un rancore indistinto, rabbia e sensazione di sconfitta.

La dittatura mafiosa camorrista aveva mirato al cuore della “resistenza” colpendo un uomo di chiesa, un prete come fu per Don Pugliesi a Palermo, ed era la seconda volta in sei mesi che ciò accadeva. Eppure una risposta a questa domanda c’era già da tempo e la troviamo nel documento più noto che Don Diana, assieme ai preti della Forania, aveva scritto e diffuso nel 1991 in occasione del Natale. “Per amore del mio popolo non tacerò…” Una lettera pastorale che rappresenta un manifesto dell’impegno contro il sistema criminale: « Siamo preoccupati. La Camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana. I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale(…) Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili(…) Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa(…) ».

In questi passaggi c’è una lucida visione di quello che era e tendeva a diventare la camorra sanguinaria, imprenditoriale e infiltrata negli enti e apparati dello Stato. Una analisi sulla quale tante volte ci eravamo confrontati nelle lunghe chiacchierate nel cortile dell’Istituto Volta e in tante altre occasioni. Con Peppe avevo costruito un’ amicizia “delocalizzata”: eravamo entrambi casalesi, di rioni diversi, e c’era stata solo una breve frequentazione quando lui era viceparroco nella Chiesa “madre” SS. Salvatore, distante pochi metri dalla sede del PCI, dove spesso mi trovavo, come iscritto, dirigente locale ed ex Sindaco di fine anni 70. Quando prese servizio a Scuola, sul finire degli anni 80, fu lui a venirmi a salutare, appena ci incrociammo. Mi fu facile stare in sua compagnia: era di una schiettezza disarmante, facile alla risata o alla battuta anche pepata ma pronto a discutere di tutto quanto ci coinvolgeva in quella fase storica. Mi disse che conosceva il mio impegno socio- politico e manifestò la sua stima. A un prete che si mostrava così umile e sensibile non potevo che dare tutta la mia fiducia. Peppe divenne presto un amico con il quale condividere tanti momenti, alcuni anche spensierati. Si,… spensierati perché lui esprimeva senza remora la sua carica vitale: a scuola lo mostrava nella passione per il calcio. Era tifoso sfegatato del Napoli e di Maradona, anche quando non c’era più nella squadra; la domenica faceva il possibile per sedere sugli spalti del San Paolo e quando il “ciuccio” vinceva, per giorni si divertiva a “sfottere” i colleghi che simpatizzavano per altre squadre.

Le frasi che si scambiavano erano cariche di passione e molto “colore”! Sfogava la sua esuberanza buttandosi nella mischia delle partitelle improvvisate dagli alunni nel cortile….(la palestra) ma la vera serenità la acquistava ancora più rasserenato era quando viaggiava per stare assieme ai suoi scout o da solo, in quel monastero umbro, dove “tengo a zia monaca” , mi diceva. Peppe aveva questa gran voglia di vivere ma senza mai sottraesi al suo impegno nel dare voce a chi non era ancora libero dalla “dittatura feroce” dei criminali, in tutto il territorio dell’agro Aversano … e oltre. Non aveva la vocazione dell’ eroe ma non arretrava dalle sue posizioni di contrasto alla cultura della morte e della violenza. Invece la “vocazione al coraggio” la manifestava anche nel quotidiano esercizio della sua funzione di parroco. Capitò, ad esempio, quando alzò forte la voce all’indirizzo di un boss di camorra per denunciare pubblicamente un “manovale” del sistema” che, per futili motivi, bastonò una persona che poi si rivolse a don Peppe. E non lo fece per un desiderio di apparire difensore dei deboli o prete che intermedia con il potente: era la sua chiara, convinta consapevolezza di dover dire NO alla prepotenza della Camorra. Era il messaggio di chi per amore del suo popolo non poteva tacere… Del bisogno di liberarsi dalla paura e dare esempi di libertà di parola, parlava spesso anche nelle manifestazioni pubbliche, quando scriveva o rilasciava interviste e in qualsiasi occasione utile per incitare al risveglio sociale e politico. E …capitava anche che amici a scuola, si divertissero a chiamarci Don Peppino e il Comunista… e che qualcuno più “marpione” rimarcasse: tra i due, il “comunista” è don Peppe!

Erano “battute” ma in parte coglievano una delle realtà di don Peppe. Lui aveva un rapporto di grande stima per l’impegno sociale e “politico” di Padre Pintacuda a Palermo: ammirava il suo ruolo a sostegno di una politica emergente che poggiava sulla centralità dell’antimafia. Per cui, come aveva più volte detto e scritto, immaginava di fare un’operazione simile nella nostra terra, a Casale. Lo fece nel 93, sostenendo la lista civica Alleanza per Cambiare che elesse sindaco Natale Renato, Lo stava facendo per le Elezioni Politiche del 1994 quando propose e sostenne la candidatura di Michele Corvino che fu poi eletto al Senato a fine Marzo, (…per questa candidatura, Peppe voleva proporre il mio nome ma lo convinsi della difficoltà “politica” che avrei provocato…) E tante volte mi raccontava del suo sogno: una scuola di politica per formare quella classe dirigente capace e libera dal condizionamento mortale della camorra. Mi chiedeva di lavorare a quel progetto e il suo entusiasmo era contagioso. In questo caso non ce n’era bisogno poiché avevo la stessa convinzione, maturata in ambito politico. Un progetto che non fu possibile sperimentare….dopo il 19 Marzo.

Restando nella scuola… Don Peppino si conquistò in poco tempo le simpatie e la stima di tutti gli operatori scolastici. Entrò a far parte del Consiglio d’Istituto che allora aveva funzioni e responsabilità di gestione di somme non indifferenti, quasi come in un piccolo ente comunale. In quel consesso, quando le discussioni divenivano più “dialettiche”, ricordo con piacere di averlo sempre avuto sostenitore di posizioni condivise. L’ITIS A. VOLTA, deve tanto a Don Diana per la sua azione educativa e l’esempio di vita ma pochi sanno invece, della sua lotta per l’avvio della costruzione della sede nuova (eravamo allocati in una struttura assolutamente inadeguata) che la Provincia da anni aveva finanziato e mai iniziata. Peppe seppe di questa vicenda e dopo poco tempo, come delegazione del Consiglio d’Istituto, incontrammo il sindaco di Aversa e un rappresentante della Provincia. L’esito fu sconsolante: il funzionario ammise che dopo alcuni anni, non erano riusciti a fare l’esproprio del terreno su cui edificare, perché il proprietario si opponeva e ….“manco con la polizia” erano riusciti a farlo. Si trattava di un personaggio colluso con la camorra e questi decideva del destino della nostra scuola: un’amarissima conclusione! Nei giorni seguenti, Peppe mi informò di aver fissato un’incontro in Provincia, accompagnato da una personalità (non volle specificare chi) per sbloccare almeno l’avvio dell’esproprio e dell’appalto. Eravamo agli inizi dell’anno 1994 e l’effetto positivo si verificò poco tempo dopo la sua “assenza”…

Infatti, all’inizio del nuovo anno scolastico, il Preside mi informò che la Provincia aveva completato l’esproprio (pagarono una cifra notevole) ed avviato la procedura d’appalto. Mi venne spontaneo dire grazie a Peppe….! Aggiungo che questo ricordo mi porta a ripensare, con fastidio, a una lastra di marmo posta davanti alle ultime aule costruite: un omaggio al presidente dell’ente provinciale al momento dell’inaugurazione del Cantiere. A mio avviso un abuso che andava rimosso anche per meglio onorare Don Diana. C’è da dire che la scuola gli ha dedicato la sala convegni e questo denota la sensibilità di Dirigenti scolastici e colleghi: spero si faccia un altro piccolo gesto, eliminando quella lastra marmorea. Nel primo anniversario della sua morte, sul giornalino di fine anno dell’ITIS, scrissi poche righe in memoria di Peppe, definendolo prete e uomo coraggioso, non un eroe. Oggi aggiungerei che fu ucciso perché fu un prete anticamorra. Il suo assassinio ha fortificato le sue parole rendendo moltissimi più decisi a percorrere il cammino da lui avviato. So infine , che molti aspettano con giustificata ansia la sua beatificazione, come avvenuto per Don Pugliesi: io non sono credente ma penso che a Papa Francesco, per come interpreta la sua missione, sarebbe piaciuto molto il parroco don Peppe Diana.

* Il dipinto è dell’artista Annamaria Zoppi.

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