di Mario De Michele
Dovrei esordire con le solite frasi di circostanza o a effetto, tipo: “Vado avanti, non mi faccio intimidire, non mi fermeranno”. Preferisco esprimere davvero quello che provo in queste ore. Sono preoccupato per me e per la mia famiglia. Ho poca, anzi nessuna, voglia di scrivere. Mi pesa battere sui tasti. In oltre 20 anni di giornalismo è la prima volta che la scrittura mi grava così tanto. Mi rattrista e mi indigna che nel 2019 un cronista corra il rischio di essere ucciso soltanto perché fa il proprio mestiere. Non è accettabile. È da Alto Medioevo. In giro ci sono ancora barbari che pretendono di espandere il loro dominio territoriale a colpi di pistola. Dovrei dire un’altra frase scontata: “Non ci riusciranno”.
Ma in questo momento non mi va di lanciare proclami che troppo spesso, anche nella nostra professione, si tramutano in inutili slogan. Ora il mio unico pensiero va a mia moglie, a mio figlio e ai miei genitori. E lo voglio dire: mi sento in colpa. Sapere che mio padre ha pianto perché ho rischiato (questione di centimetri) di essere ammazzato mi ha segnato a vita. Fingere con mio figlio, che si è spaventato quando ha visto sei auto dei carabinieri arrivare a casa, è un’esperienza che non auguro a nessun padre. I volti di mia moglie e mia madre (che è svenuta per la paura) bianchi come la cera mi hanno marchiato a fuoco dentro.
Scrivo queste poche righe soprattutto per loro. Lo faccio anche per gli altri parenti, per i tanti colleghi e per gli amici veri che stanno provando a contattarmi in ogni modo. Mi scuso con tutti se non sto rispondendo né al telefono né ai messaggi. Per fortuna, i credenti direbbero per miracolo, sono rimasto illeso. Ma ve lo confesso, sul piano psicologico non mi sono ancora ripreso. Sto male perché non è concepibile che la provincia di Caserta, la Campania, il Sud non possano diventare finalmente dei territori “normali”. Sgombro il campo da qualsiasi equivoco: prefettura, magistratura e forze dell’ordine non mi hanno abbandonato un solo istante. Un esempio su tutti. Ieri sera si sono recati a casa mia il comandante del Gruppo dei carabinieri di Aversa Donato D’Amato e quello della Compagnia di Marcianise Luca D’Alessandro. Il maggiore Gabriele Tadoldi si è messo addirittura dietro al computer per “supervisionare” la mia denuncia. Poi gli uomini dell’Arma normanna mi hanno accompagnato al Gruppo per ricostruire l’accaduto. Abbiamo finito alle 2 di notte. E poi mi hanno riportato alla mia abitazione. Lo dico agli imbecilli che pontificano davanti ai bar: “Le forze dell’ordine non fanno nulla”.
Chiudo con un’ammissione: ho paura. Chiamatemi pure codardo. Ma è la verità. Poi è inutile dirlo. Chi mi conosce lo sa: continuerò a fare il cronista. Magari male. Ma sempre senza condizionamenti. A modo mio.