di Mario De Michele

Che non sia più il tempo delle passerelle lo ha capito anche mio figlio di sei anni. Eppure i professionisti dell’antimafia – non ce ne voglia il pluripremiato Saviano se citiamo Sciascia – perseverano diabolicamente nella lotta parolaia contro la camorra.

Chiacchiere e distintivo, potremmo dire, se non fossero solo chiacchiere. O al massimo battaglie condotte, in molti casi, davanti ai riflettori delle telecamere a caccia di uno spiraglio di luce mediatica. L’ultima puntata della sagra della vanità si è avvalsa della migliore location possibile: Scampia. Con le sue vele disumane – a proposito, Bassolino non promise che sarebbero state tutte abbattute? – con le sue “basi” dello spaccio, con i suoi abitanti di cui tanto si parla e nulla si sa.

Scampia: un gomitolo di strade e degrado, di droga e camorra, di sofferenza e disperazione. Scampia, di cui ci si ricorda solo quando ci sono i morti ammazzati, oppure quando si celebra la forza disvelatrice del best seller “Gomorra”. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo la carne viva di chi è stufo di ascoltare i soliti sermoncini e le irritanti frasi fatte pronunciati dai pulpiti della politica e dalle cattedre di magistrati in cerca d’autore o di intellettuali della domenica.

Ne è la riprova la fantomatica manifestazione “OccupyScampia”, infelice di nome e di fatto. Nata, male, dalla spasmodica voglia di protagonismo dei tossicodipendenti dei social network – Twitter, in questo caso – e finita peggio per l’altrettanto irresistibile istinto presenzialistico di politici improvvisati e miracolati da una legge elettorale basata sul potere dei capiclan dei partiti.

In piazza Giovanni Paolo II, raduno dei promotori di “OccupyScampia”, c’erano i soliti noti, armati di demagogia e animati dalla ricerca, ad ogni costo, di un po’ di visibilità. Sono rimasti invece a casa quelli che nell’inferno di Scampia vivono tutti i giorni. E’ scomodo per loro il salotto della politica, e non sono abbastanza telegenici da mettersi in posa davanti agli obiettivi di fotografi e cameraman. Loro, gli abitanti del limbo di Scampia, hanno piena contezza della distanza siderale tra il mondo virtuale del web e quello reale dello spaccio di droga e della presenza asfissiante della camorra.

Loro, cittadini depredati dei diritti fondamentali, non hanno alcuna voglia di assistere alle indigeste sfilate di politicanti e aspiranti tali. Loro, vittime sacrificali di uno spietato sistema politico e criminale, si sono rifiutati di recitare il ruolo di comparse nell’infinita serie di manifestazioni-farsa. Come biasimarli. Chi ha pensato di fare breccia nel muro della diffidenza e del degrado sociale e urbanistico con un semplice twitt o vive immerso nel mondo virtuale, oppure è in malafede. È quello che hanno pensato i tanti giovani, uomini, donne, studenti che scendono in piazza ogni giorno, impegnandosi concretamente, per traghettare Scampia fuori dalla zona franca del traffico di droga.

Alla manifestazione-sfilata non hanno partecipato le associazioni di quartiere “Gridas”, “Mammut”, il centro “Hurtado”, gli oratori che sono attivi da anni sul territorio, senza mai rincorrere il flash dei fotografi o la lucetta rossa delle telecamere. E non è un caso se proprio loro, veri paladini della legalità e operai dell’antimafia, hanno contestato l’iniziativa, definita inutile e sbagliata anche nel titolo. “Non si sarebbe dovuta chiamare “OccupyScampia” – hanno giustamente fatto notare -, ma “Occupiamoci di Scampia”, perché occupare un luogo, dà l’idea che sia deserto, ma questo quartiere non lo è. Ci sono persone che lavorano, vivono qui, ogni giorno”.

Per i professionisti dell’anticamorra è molto più facile e redditizio sfilare nelle passerelle che impegnarsi concretamente e in prima fila per aiutare Scampia a liberarsi dal capestro della criminalità. È molto più comodo vivere nel mondo virtuale e mediatico che in quello reale. Non basta un tweet per sopravvivere tra un gomitolo di strade e degrado, di droga e camorra, di sofferenza e disperazione.

Alla prossima sfilata.

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