di Nicola del Piano
Un giudice dell’Alta Corte di Inghilterra ha deciso, pochi giorni or sono, per la nutrizione forzata verso una donna di 32 anni con una forma molto grave di anoressia e che avrebbe deciso di lasciarsi morire, attraverso tra l’altro la firma di moduli in cui la sua richiesta di morte veniva espressamente sancita.
Un caso analogo in Italia fu quello del 2009, quando, ad una ragazza di 20 anni, venne imposta la nutrizione. Tale strada fu percorribile dai giudici del Tribunale di Milano, attraverso l’istituto di diritto civile dell’amministrazione di sostegno, con il quale, verificata l’incapacità della ragazza di tutelarsi, si procedette alla nomina di un amministratore di sostegno e quindi ad un ricovero forzato.
Al di là dei risvolti civilistici e dei drammi che caratterizzano tutte le storie dei disturbi alimentari, quello che qui ci interessa è il c.d. diritto di morire. Un argomento vastissimo e complesso, che divide le coscienze e le idee, che può rappresentare un scontro forte tra diritti (si pensi ad esempio al diritto alla libertà personale e il diritto alla salute) e che cercheremo qui di comprendere, seppur brevemente. Nell’ordinamento giuridico italiano vige il principio, assoluto ed inderogabile, dell’indisponibilità della vita umana.
Sul principio di indisponibilità della vita umana, pertanto, si fonda la convivenza civile fra gli uomini, la struttura della società e l’intero sistema giuridico del nostro paese. Negare tale principio, per converso, equivale ad affermare infatti che la vita sia un bene “disponibile”, cioè qualcosa di cui il soggetto potrebbe disporre, e dunque che possa esistere anche un corrispondente “diritto di morire”, inteso come il diritto di rifiutare la vita, ovvero di darsi la morte.
Il riconoscimento, da parte del nostro Ordinamento, di quella particolare categoria dei c.d. diritti della personalità, riferiti alle esigenze fondamentali dei singoli ed accordati ad ogni persona fisica sin dalla nascita e fino alla morte, è garantito attraverso una tutela molto consistente realizzata con la previsione di una serie di norme molto dettagliate che ne salvaguardano l’inviolabilità. Tra esse in primis l’art. 2 della Costituzione, che sancisce l’inviolabilità dei diritti dell’uomo, anche nei confronti dello Stato, e l’art. 3, comma 2 della Costituzione, che assegna allo Stato il compito di farsi strumento per assicurare il pieno sviluppo della persona umana. Nella categoria dei diritti personali rientrano dunque, tra gli altri, il diritto alla salute, alla vita ed all’integrità fisica, tutelati da norme quali gli artt. 575 ss c.p., l’art. 5 c.c. e l’art 32 Cost., che puniscono penalmente e civilmente chiunque cagioni la morte o provochi lesioni personali ad un uomo.
Allo stesso tempo, l’art. 32 Cost. prevede che “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. L’aspetto che però a noi più importa è quello che emerge dall’ultima parte dell’articolo 32 e dal quale ci si muove per comprendere se il rispetto della persona umana vada inteso estensivamente fino al punto di ammettere che il paziente possa richiedere la sua morte. Vi è da evidenziare, innanzi tutto, che la norma fa riferimento alla persona umana e non anche alla “volontà” della persona umana: ciò significa che la Costituzione non ammette che la volontà del paziente possa essere tutelata fino ad infrangere il rispetto della propria persona.
La giustificazione dei trattamenti coattivi risiederebbe, pertanto, nella salvaguardia dell’interesse generale, poiché neanche il legislatore potrebbe imporre un trattamento medico al solo fine di salvare il paziente. Da ciò deduciamo che qualsiasi norma consenta alla persona di disporre contro la propria vita o l’integrità fisica sarà considerata incostituzionale e dunque che il nostro Ordinamento riconosce al diritto alla vita una importanza preminente rispetto al diritto di autodeterminazione dell’individuo.
L’uomo, quindi, non è illimitatamente padrone di sé stesso. Anche all’integrità fisica è dunque attribuito un valore sociale che giuridicamente, pur entro i limiti citati, prevale sul suo valore individuale. Tuttavia, nella legislazione più recente, emerge una tendenza a temperare la eccessiva rigidità del principio dell’inviolabilità del diritto alla vita: possiamo in proposito menzionare una serie di leggi, quali la L. 644/75 sui prelievi di parti di cadavere a scopo di trapianto, la 458/67 sui trapianti del rene tra viventi, la 107/90 sulla pratica trasfusionale, la 164/82 che, derogando al disposto dell’art. 5 c.c., ha consentito la rettificazione chirurgica del sesso naturale, e la 578/93 con la quale si è identificato il decesso con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo.
Nonostante tale recente legislazione abbia dunque aperto ampie brecce nella validità generale del principio, da ciò non si possono tuttavia desumere argomenti che sostengano il diritto di morire. Concludendo questo mio sintetico articolo su un vasto e complesso argomento, tutt’ora aperto, e sempre considerando che dietro i diritti ci sono gli uomini, con le loro angosce e le loro storie, mi piace qui ricordare la frase con la quale quel giudice inglese ha quindi salutato la sua decisione: «Un giorno questa donna potrebbe scoprire di essere una persona speciale, la cui vita vale la pena di essere vissuta».