di Francesco Nuzzo*
“Sono morto all’alba del 15 novembre 2010. Uomini della squadra di polizia giudiziaria della questura di Caserta entrano in casa mia con un ordine di perquisizione domiciliare e personale, firmato da un magistrato della direzione distrettuale antimafia di Napoli. Li accompagna il capo della squadra mobile della questura di Cremona che, insieme con un suo ispettore, interviene per una forma di riguardo nei miei confronti, avendo collaborato in molte indagini da me disposte come procuratore della Repubblica della città padana. Quando leggo le accuse, resto basito: mi imputano nientemeno il concorso esterno in associazione criminosa, perché come sindaco di Castel Volturno avrei favorito il clan dei casalesi. Faccio accomodare gli ospiti, non proprio graditi in quel momento, e metto a loro servizio me stesso e le mie cose. Non ci sto più con la testa, farfuglio qualche frase sconnessa, vengo invitato a consegnare le pistole di cui ho la legittima detenzione. Agisco come un automa, e osservo la perquisizione che i poliziotti svolgono con meticoloso garbo, evitando di aggiungere alla patita umiliazione l’ingiuria dell’azione violenta verso mobili, libri, indumenti, oggetti della vita domestica. Pure quel loro procedere, educato e rispettoso, mi squarcia l’anima. Ogni volta che la mano dei perquisenti tocca la roba, subisco un’intensa lacerazione del cuore: è la mia roba, quella. Un estraneo la gira tra le mani. Non sono più il padrone. Come si permette di comandare in casa mia, dove serbo gli affetti più cari, i ricordi del lavoro, le gioie dell’esistenza? “No, tu quella non la tocchi”, la mia coscienza grida mentre un poliziotto controlla una stilografica di modesto valore economico, che mi era stata donata agli inizi della professione di magistrato da un’anziana signora in occasione delle feste di Natale. Non riesco a parlare, sopraffatto da un potere al quale non sono in grado di resistere.
Ogni stanza viene scandagliata, secondo le regole della legge. Già, la legge, la mia arma, la mia compagna, il mio totem, la mia salvezza. Ma è contro di me e afferma la forza dello Stato, al quale ho sacrificato la vita, senza mai discutere. Lo Stato, i suoi uomini, le sue procedure vanno rispettati. Sempre. E continuano a visionare i cassetti. Il tempo è sospeso. Non prelevano mai niente, perché tutto è quotidiano, banale, ordinario, comune, e non si collega in alcun modo a reati. Nei casi più gravi, le perquisizioni offrono l’occasione di collocare “cimici” per intercettare i colloqui. Ma in casa non c’è nulla da intercettare, le mettano pure. Altre verifiche sono eseguite anche senza la mia presenza, che appare comunque inutile perché non capisco nulla. Come Dio vuole, si arriva alla fine. Sottoscrivo il verbale della visita. Mi dispiace l’allontanamento dei poliziotti. Spero che rimangano perché ho paura di restare solo. Un saluto, e poi partono.
Non mi riprendo subito, ma ancora intontito vado in ufficio a Brescia con la macchina. Il giornale radio dà la notizia dell’indagine, e non riesco a sapere molto di più. Contatto un amico, avvocato del foro di S. Maria Capua Vetere, e lo prego di accertarsi meglio dell’accaduto. Si muove con celerità. Mi fornisce maggiori dettagli: sono investito da una montagna di fango perché alcuni “pentiti” a me sconosciuti dicono falsamente che sarei un affiliato alla camorra. Come? Io che ho ispirato la mia condotta alle regole dell’onestà, dell’onore, del rigore morale? Poi, ricevo il testo dell’ordinanza del giudice per le indagini preliminari di Napoli, che ha rigettato una richiesta di arresto presentata dal pubblico ministero nei miei confronti. Sì, una richiesta di arresto. Appena leggo le dichiarazioni dei pentiti, ogni dubbio svanisce: la camorra che ho sempre combattuto a fronte alta, si vendica. E il pensiero va a Enzo Tortora che ebbe la gioia amara di veder proclamata la sua innocenza. Sono nella stessa condizione, e devo riuscire anch’io, presto. Come posso bloccare il tempo che fugge, fugge irrimediabilmente? Che genere di Stato è questo che consente agli assassini, i quali fingono “pentimento” dopo essersi lordati le mani di sangue, di uccidere con la loro parola, cui si dà un credito che distrugge la rispettabilità di intere famiglie? Sulla mia pelle avverto il fallimento delle teorie sull’utilità dei pentiti, che pure io talvolta ho sostenuto. State attenti, i pentiti uccidono sempre, prima e dopo. Non dategli ascolto, mentono, mentono, mentono. E continuo a pensare…”.
Con queste riflessioni, inizia il mio libro “Uomini d’onore e uomini senza onore”, dove riporto l’esperienza vissuta di sindaco di Castel Volturno. Oggi, rileggo quel testo, pubblicato otto anni fa, e non patisco più il tormento dell’innocente costretto a subire le infamie dei cosiddetti “pentiti”. E anche le trovate di una certa stampa, superficiale e cialtrona che, senza controllare le notizie, diffondeva le menzogne di codesti mascalzoni. Pur avendo la possibilità di contrastare tali assunti, son rimasto sempre in silenzio, per non amplificare le conseguenze delle ignobili propalazioni attraverso la loro smentita. La lunga pratica di pubblicista è servita non poco a evitare errori del genere. Ma l’aculeo lancinante dell’ingiustizia mi piagava il cuore e la mente in ogni ora del giorno e della notte: l’accusa di essere contiguo alla camorra era l’ultimo pensiero prima di cercare un breve sonno, e il primo pensiero quando aprivo gli occhi alla luce del sole.
Ecco il catalogo degli addebiti, che riguardano mezzo codice penale. Comincio dai delitti rientranti nella “competenza investigativa” della Procura della Repubblica di Napoli – Direzione distrettuale antimafia: concorso esterno in associazione mafiosa, falso ideologico, abuso di ufficio, omissione di atti di ufficio, rivelazione di segreto di ufficio, tutti aggravati dalla finalità mafiosa. Più specificamente, nella qualità di sindaco, avrei favorito società imprenditoriali affiliate al clan dei Casalesi, consentendo alle stesse lo svolgimento del servizio di vigilanza del Comune e l’aggiudicazione dell’appalto relativo alla gestione dei rifiuti. Avrei anche promesso a tale Luigi Guida detto ’o’ndrink’, uno sconosciuto capobastone del gruppo Bidognetti, l’esecuzione di opere pubbliche in cambio di un suo intervento contro altro gruppo malavitoso, tanto contrario alla mia elezione da minacciare i miei familiari.
Altri reati contestati – la cui trattazione spettava al Pubblico Ministero di Santa Maria Capua Vetere, come correttamente ritenne il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Napoli – erano concussione patrimoniale, concussione sessuale, abuso di ufficio, omissione di atti di ufficio, rivelazione di segreti di ufficio. Il Procuratore della Repubblica della città casertana, in seguito a puntuali accertamenti e a un’attenta valutazione del materiale disponibile, presentò richiesta di archiviazione, accolta dal Giudice per le indagini preliminari, per tutti i delitti ipotizzati, a dimostrazione della disinvoltura con la quale furono costruite le accuse, smentite altresì da sentenze e documenti amministrativi prodotti in quella sede.
Per i crimini di natura mafiosa, quando il titolare dell’azione penale chiese il rinvio a giudizio, scelsi la strada del rito abbreviato, allo scopo di accelerare la conclusione della procedura, che per me costituiva un supplizio immeritato. Non parlo qui della solitudine, della freddezza, della maldicenza, dell’ingratitudine di quanti avevo beneficato con gioia. Superavo momentaneamente lo sconforto nello studio degli antichi documenti (per semplice vanità, ricordo che ho il diploma in paleografia, diplomatica e archivistica, conseguito presso l’Università degli Studi di Napoli), che mi hanno consentito di scrivere, durante questo periodo, alcuni saggi storico-giuridici non del tutto inutili.
Il percorso di dolore, tuttavia, ebbe una prima interruzione il 17 settembre 2014, con la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare di Napoli, che riconobbe l’innocenza del sottoscritto rispetto al reato associativo e alle sue implicazioni, poiché accertò “l’inattendibilità oggettiva” del Guida e dei suoi sodali, una squadra di mentitori privi di scrupoli nel progettare l’eliminazione fisica o morale delle persone. Essi, con l’aiuto di qualche colletto bianco (non posso andare oltre questa indicazione, per ora), ordirono una congiura per impedire la mia ricandidatura quale sindaco del comune domitiano, sul quale volevano mettere le mani. Il Pubblico Ministero partenopeo impugnò l’indicata decisione, ma la Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 3 dicembre del 2018, confermò la pronunzia del primo giudice, e dunque l’assoluzione dalla gravissima accusa di associazione mafiosa, “per non aver commesso il fatto”. Prosciolse, altresì, da un presunto abuso di ufficio per intervenuta prescrizione, ma presenterò ricorso per cassazione: non consento nemmeno il più lieve sospetto sulla mia limpidezza morale. Comunque la Giustizia, di cui non ho mai dubitato, riconoscendo solennemente l’onestà del sindaco di Castel Volturno, autorizza che io cammini a fronte alta, consapevole di avere sconfitto la camorra nell’unico modo possibile: con l’osservanza della legge.
La vicenda sommariamente esposta, e tante altre analoghe per ampiezza e varietà, rivelano l’inquietante espediente, approntato dall’ordinamento, nella persecuzione di alcuni delitti: lo scambio tra delazione o confessione da una parte e impunità o riduzione di pena dall’altra. Esso è un fattore di turbamento della giustizia penale, un cancro del sistema, giacché destruttura la giuridicità del processo, affidandolo alla logica attigua ma diversa della ragione politica, un canone tipico dell’inquisizione medievale: expedit reipublice ne maleficia remaneant impunita (“Giova allo stato che i delitti non rimangano impuniti”). Esauritasi la fase terroristica vera e propria, che la dissociazione permise effettivamente di smantellare, dovrebbero essere riconsiderate le conseguenze della normativa premiale rispetto ai gruppi criminali comuni, che in alcune regioni italiane hanno ramificazioni ampie, e contendono allo Stato l’egemonia sul territorio. Con atti di violenza e di minaccia, incutono timore per la loro stessa esistenza, causando una condizione di assoggettamento e di omertà: creano una sottomissione incondizionata dei soggetti nei cui confronti dirigono l’azione delittuosa, che genera reticenze e rifiuto di aiutare i rappresentanti delle istituzioni, per il timore di rappresaglie. Queste consorterie offendono sia la libertà di mercato e di iniziativa economica, sia i diritti politici del cittadino, sia la libertà morale ampiamente intesa.
Il pensiero corre ai “collaboratori di giustizia”, terminologia che sembra denotare la qualità nobile di quanti contribuiscono a svelare i segreti e le attività dei gruppi delinquenziali. Con un linguaggio più vivace, la gente li chiama “pentiti”, vecchia locuzione giornalistica rimasta nell’uso, cui per lo più è assegnato un valore spregiativo: la semplicità popolare svilisce l’immagine dei delinquenti che, senza affrontare il liberatorio percorso interiore di chi ha male agito, danno nondimeno la prova del reato con la remunerata delazione, e sono testimoni di accusa in vista di personale tornaconto.
Diventati ormai figure abituali delle indagini, i collaboratori o pentiti, che dir si voglia, hanno alle spalle una sequela di omicidi, estorsioni, violenze, minacce e altri delitti, commessi all’interno e al servizio della struttura malavitosa. A un certo punto dichiarano o fingono di voler recidere i legami con le organizzazioni di appartenenza per molteplici motivi, che vanno dalla lieve retribuzione penale alla propria sicurezza personale. In alcuni casi, le informazioni fornite agli inquirenti hanno permesso di scoprire assetti di mafia, camorra, ’ndrangheta, sacra corona unita.
L’estendersi del fenomeno, però, ha popolato il teatro giudiziario di personaggi squallidi che, nella nuova e mutata veste, attuano vendette e cospirazioni, continuando sotto l’usbergo di un’apparente attendibilità il vecchio modello di vita, dal quale non si sono mai distaccati. La presenza di costoro subordina l’accertamento della verità, che con la giustizia forma un binomio indissolubile, a una permanente condizione sospensiva, quando la decisione si fonda sui riferimenti di tali manutengoli.
Molteplici elementi giustificano l’avversione contro il “pentitismo”, vera pietra angolare delle indagini e del dibattimento, gestito, più di quanto non si creda, dagli stessi criminali. Il metodo sperimentato si manifesta attraverso le narrazioni di inveterati farabutti, ormai fuori dai giochi, che lanciano accuse destinate a finire sui giornali e diffuse dalla televisione. Solo magistrati tecnicamente attrezzati e insensibili alle suggestioni dello scoop riescono a cogliere, spesso con ritardo, la falsità delle accuse, ma l’obiettivo dei registi del malaffare è nondimeno raggiunto: il fango giunge a destinazione, con esiti facilmente immaginabili per la persona colpita nell’onore, nel prestigio, nella libertà, nei beni materiali. I furfanti sfruttano le opportunità offerte dalle norme vigenti e attuano la propria giustizia: fingono improvviso pentimento e si procurano generosi vantaggi con la delazione, consegnando alla sorpresa curiosità e al riserbo debole degli inquirenti il nome di una persona, molte volta ignara del fatto addebitatole e dello tsunami mediatico che di lì a poco la travolgerà.
A questo punto, quasi come sintesi conclusiva, mi piace riferire il pensiero di un geniale illuminista della nostra terra, Gaetano Filangieri, che rifiutava le scorciatoie del “pentitismo”. Le sue parole, contenute nel libro terzo del capolavoro: La Scienza della legislazione, pubblicato al declinare del secolo XVIII, dovrebbero essere scritte a caratteri d’oro nel Parlamento e nei tribunali: “Quando la santità delle leggi non fosse incompatibile con un rimedio che ha il più vile tradimento per mezzo; quando non fosse un indizio di debolezza e d’impotenza il vedere che la legge implora l’aiuto di chi l’offende; quando l’esperienza non ci avesse mostrato che in questi casi il più malvagio è ordinariamente quello che scampa il rigore della pena; la sola ragione bastar dovrebbe per distogliere il legislatore dal ricorrere a questo rimedio, il quale non è solo inefficace a produrre l’effetto che si desidera, ma può divenire la causa dell’effetto opposto. La speranza o la sicurezza dell’impunità concessa alla delazione del complice, invece di distogliere, renderà più ardito il malvagio avveduto ad intraprendere il delitto che ha bisogno del concorso di più uomini. Prima di sedurre i suoi compagni all’intrapresa del delitto, egli ha già concepito il suo pravo disegno d’immolarli alla sua sicurezza, quando vedesse prossima la scoverta de’ rei. Ciascheduno de’ suoi compagni prima di aderire, formerà l’istesso disegno. La speranza dell’impunità allignerà ugualmente in tutti questi perfidi cuori, e li renderà più arditi all’intrapresa. Ciascheduno vedrà nella dilazione il suo sicuro asilo, e con questa lusinga il terrore della pena sarà ugualmente indebolito in ciascheduno de’ complici dalla comune speranza dell’impunità; il delitto sarà incoraggiato dal mezzo istesso che la legge adopera per punirlo; ed il legislatore, deluso nelle sue speranze, vedrà con rimorso i funesti effetti di un rimedio che, ancorché utile, dovrebbe essere abbandonato come contrario alla veneranda dignità delle leggi”.
*Giornalista e Scrittore, già Magistrato