Antonio Salvatore

di Antonio Salvatore*

La Costituzione italiana attribuisce alle Regioni una potestà legislativa concorrente su alcune materie tra cui la “tutela della salute”. Nell’ambito di tale “potestà”, l’art. 116, 3° comma, della Costituzione, modificato dalla L.C. n. 3 del 2001, attribuisce alle Regioni a statuto ordinario “ulteriori forme e condizioni di autonomia”, purché limitate a specifiche materie e con un iter istruttorio ben preciso. Tale disposizione costituzionale è chiamata “Regionalismo Differenziato” introdotto dal Costituente del 2001 nell’ambito di un processo di de-statalizzazione. Le Regioni che intendono avere maggiore autonomia legislativa debbono avanzare richiesta al Presidente del Consiglio dopo aver consultato gli Enti Locali. All’esito di un negoziato tra Governo e Regione richiedente, la richiesta sarà incartata in una “legge rafforzata”, approvata a maggioranza assoluta dai componenti di ciascuna Camera. Il “Regionalismo Differenziato” è quindi presente nel nostro ordinamento giuridico da oltre vent’anni. Nel 2017, tre Regioni a statuto ordinario (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) avviarono il suddetto percorso, intrapreso nel 2019 anche da altre 5 Regioni (Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria e Marche). Rimasto silente durante il “biennio pandemico”, il 2 febbraio scorso il Consiglio dei Ministri ha approvato il DdL recante la disciplina del Regionalismo Differenziato. Nello specifico, le Regioni richiedenti una maggiore autonomia legislativa in ambito sanitario intendono risolvere il tema della “desertificazione sanitaria” agendo sui vincoli imposti dalla vigente normativa statale, ancorché nel rispetto dei vincoli di bilancio dalla stessa previsti. Le aree d’intervento variano dal personale ai criteri di remunerazione delle prestazioni e della compartecipazione alla spesa sanitaria. Sul versante personale, essendo pacifica la circostanza che l’efficienza dei sistemi sanitari regionali postuli la sua valorizzazione, s’intende quindi agire sulle modalità di accesso alle scuole di specializzazione e sulle quelle operative – con contratti di “specializzazione-lavoro” – nonché sulla definizione della governance di aziende ed enti del S.S.R. fermo restando le disposizioni nazionali in materia di selezione della dirigenza sanitaria. S’intende altresì agire sulle regole di istituzione e di gestione dei fondi sanitari integrativi. Insomma, una richiesta di autonomia legislativa ad ampio spettro. Sebbene questa trovi la sua ratio nel ricercare l’efficienza e l’efficacia nella gestione del sistemi sanitari della Regione richiedente, in presenza di conclamate asimmetrie regionali, una maggiore autonomia legislativa potrebbe aggravare ulteriormente i “divari di cittadinanza” minando la coesione sociale, economica e territoriale. Inoltre, non è detto che il potenziamento delle suddette attività si debba ottenere con una maggiore potestà legislativa delle Regioni, ben potendo invece rafforzare le loro funzioni amministrative nelle materie oggetto di legislazione concorrente. Per le Regioni del Sud, affette da patologica migrazione di pazienti e professionisti, proprio verso quelle Regioni richiedenti maggiore potestà legislativa, il Regionalismo Differenziato potrebbe costituire un ulteriore elemento di insostenibilità del piano di riorganizzazione del sistema assistenziale territoriale ed ospedaliero. Pertanto, nonostante le Regioni maggiormente virtuose abbiano il sacrosanto diritto di gestire al meglio il loro apparato organizzativo nell’ambito della loro autonomia, è altrettanto vero che questa potrà aversi ed eventualmente implementarsi solo dopo essere intervenuti sui criteri di riparto del FSN e sulle regole della migrazione, onde arginare il patologico fenomeno della “transumanza indotta”. Giova infatti evidenziare la circostanza che le Regioni richiedenti una maggiore potestà legislativa solo le stesse che si trovano storicamente ai primi posti quanto a migrazione sanitaria attiva perlopiù proveniente dalle Regioni del Sud. Il prospetto che segue illustra la sottostima sistemica delle assegnazioni del F.S.N. che la Campania patisce da sempre in sede di riparto. Nel solo anno 2021, la nostra Regione ha incassato circa 233 mln di euro in meno a causa di una quota capitaria di 41 euro inferiore al valore medio nazionale. Sommando poi le minori risorse ottenute per l’anno 2021 a causa del saldo passivo di migrazione sanitaria – di circa 292 mln di euro – la Campania ha ricevuto minori risorse per un totale di circa 525 mln di euro (– 5% del Fondo).

*Direttore Scientifico e Responsabile Dipartimento Salute Anci Campania

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