Una squadra di cinquanta uomini creata appositamente due anni fa con l’unico obiettivo di stanare i capi dei Casalesi, migliaia di intercettazioni sentite e risentite per cogliere il più insignificante degli indizi, telecamere piazzate anche nei sacchetti dei rifiuti, centinaia di pedinamenti e controlli per fare terra bruciata ai fiancheggiatori: il blitz della polizia che ha portato all’arresto del numero uno dei Casalesi Michele Zagaria, è il risultato di un’indagine che ha utilizzato sapientemente vecchi metodi investigativi e nuove tecnologie, in cui nulla è stato lasciato al caso.

Una strategia passata sotto il nome di ‘modello Caserta’, pianificata dai vertici delle forze di polizia e dall’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni dopo la strage di Castelvolturno del 18 settembre 2008: sei immigrati nigeriani ammazzati con centinaia di colpi di kalashnikov dall’ala stragista del clan, quella guidata da Giuseppe Setola. Quell’eccidio ha dato il via ad una serie di azioni che prevedevano un forte controllo del territorio (all’inizio anche con i militari) un raccordo molto stretto tra le forze di polizia e l’autorità giudiziaria, il potenziamento delle investigazioni, l’aggressione ai patrimoni dei gruppi criminali, e che in tre anni ha portato all’azzeramento dei vertici del più potente clan camorristico: a gennaio 2009 è finito dietro le sbarre Setola, il 17 novembre dell’anno scorso è toccato al numero 2, Antonio Iovine, e, oggi, a Zagaria. Il gruppo che ha sconfitto l’ala militare dei Casalesi è composto da una cinquantina di uomini e donne delle squadre mobili di Caserta e Napoli, oltre ad un’intera sezione del Servizio centrale operativo: dopo aver trovato ‘O Ninno’, si sono concentrati su ‘Capastorta’. Sapendo fin dall’inizio che i due non si erano mai mossi dal loro territorio, come ogni vero boss che si rispetti. “Da un anno e mezzo sapevamo chi lo copriva e che si nascondeva in un bunker – racconta uno degli investigatori che ha partecipato al blitz – Ma prima di intervenire dovevamo essere sicuri, un’occasione così non capita due volte”. L’uomo che li ha portati a Zagaria e Vincenzo Inquieto, il fratello del commerciante a cui un anno fa la polizia ha distrutto il negozio cercando il covo del boss: non era lì, ma sotto casa di Vincenzo. Individuato chi copriva il latitante, è iniziata la lunga attesa per capire dove fosse il bunker. “Sapevamo che faceva ricorso a covi sotterranei particolarmente sofisticati e dunque dovevamo capire bene cosa ci saremmo trovati davanti”. Che il nascondiglio fosse proprio nella casa di Vincenzo, gli investigatori l’hanno capito grazie ad una telefonata intercettata, in cui gli interlocutori definivano ‘u ping pong’ il rumore del meccanismo che permetteva alla parete della stireria di scorrere e liberare così la botola per accedere al bunker. Parete che veniva attivata con un telecomando che soltanto Zagaria aveva. “Mai visto un covo così tecnologico in tanti anni di indagine – spiega l’investigatore – tutta la casa era stata costruita attorno a quella stanza sottoterra”. Zagaria viveva però in casa e scendeva nel nascondiglio soltanto quando le telecamere di sorveglianza installate tutt’intorno all’abitazione segnalavano qualche problema. Ma proprio quel sofisticato meccanismo che celava il suo ultimo covo, ha tradito la primula rossa dei casalesi: qualche giorno fa gli investigatori hanno notato una certa agitazione tra chi frequentava la casa, per via della ricerca di alcuni macchinari e per la necessità di fare una serie di lavori. Un eccessivo consumo di corrente, inoltre, è stato un ulteriore elemento che ha confermato la presenza di qualcuno all’interno del bunker. Il via al blitz è arrivato ieri sera, dopo che nell’abitazione sono arrivate due stecche di sigarette: nella notte gli agenti hanno occupato tutte le case circostanti e hanno iniziato a scavare. Zagaria, dall’interno del nascondiglio li ha visti ma è rimasto tranquillo, fin quando non gli hanno tolto la luce. “Era sicuro che non saremmo riusciti a raggiungerlo, ma avevamo mezzi che potevano scavare fino a 40 metri” dice soddisfatto l’investigatore. Quando ha capito che per lui non c’era più niente da fare, il superlatitante ha cominciato ad urlare per farsi sentire. “Solo allora – conclude il poliziotto – abbiamo avuto la certezza di averlo preso. Dopo due anni di lavoro”. Ed ora? “Bisognerà vedere quali sono gli equilibri, stiamo monitorando una certo gruppo di soggetti – risponde – ma è certo che i Casalesi non hanno più un capo fuori dal carcere”.

 

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