È diventato un fenomeno diffuso, al punto tale da rappresentare l’ultima frontiera della lotta al crimine organizzato. Armi dal cielo. Pistole pronte all’uso che atterrano in carcere, che finiscono nelle mani di detenuti che possono così regolare conti o imporre le proprie regole. Armi in volo portate da droni, recapitate a pezzi (in modo da essere assemblate in un secondo momento) o intere (come sarebbe accaduto qualche mese fa nel penitenziario di Frosinone), a seconda della potenza del congegno usato. Scenario inquietante, che da qualche tempo preoccupa non poco i vertici del Dap e del ministero, a proposito della tenuta dei controlli all’interno delle case circondariali italiane. C’è un episodio destinato a fare da spartiacque e risale a qualche mese fa: parliamo di quanto sarebbe stato consumato da Alessio Peluso, detenuto napoletano nel carcere di Frosinone. Ricordate la storia? Risale allo scorso settembre. In sintesi, il presunto affiliato della camorra di Miano avrebbe ricevuto una pistola per regolare i propri conti all’interno del penitenziario. Non parliamo di un detenuto comune, ma di un soggetto legato alla fazione nota come “abbasc Miano”, articolazione del clan Lo Russo di Miano, da decenni al centro del pressing investigativo della Dda di Napoli. Stando a quanto emerso finora, avrebbe ricevuto la pistola attraverso un drone, anche se non è chiaro se l’arma gli è stata consegnata a pezzi (quindi da assemblare) o per intero (si parla comunque di un modello con matricola abrasa). Ciò che è avvenuto successivamente è cronaca: avrebbe immobilizzato un agente penitenziario, per poi fare fuoco contro alcuni detenuti da cui aveva subito un pestaggio. Potenzialmente avrebbe potuto fare una strage, secondo quanto sta emergendo dalle indagini della Dda di Roma, che sta lavorando sul caso Frosinone. Un miracolo che non ci siano stati morti, al termine di un episodio che non ha precedenti in Italia. Una pistola planata in carcere, grazie a un meccanismo collaudato che vede protagonisti alcuni esponenti della camorra napoletana. Ed è su questo fenomeno che sono in corso indagini di sistema, a proposito della capacità dei clan cittadini di far recapitare oggetti dall’esterno ai propri affiliati in cella. Fino a questo momento, si era parlato di cellulari, droga e soldi, grazie al sistema dei droni, ma negli ultimi mesi si batte anche la pista delle armi: pistole (intere o da assemblare) verrebbero spedite a mezzo drone ai propri affiliati, potendo contare sull’effetto sorpresa (per eludere sorveglianza interna), ma anche su una buona dose di pianificazione nei giorni precedenti.

Come è noto, tutto avviene tramite l’uso di telefonini cellulari. Se ne è parlato alcuni mesi prima del lockdown in commissione antimafia, a proposito della capacità di introdurre telefonini di pochi centimetri in cella, durante i colloqui con i detenuti, di fronte all’impossibilità di controllare tutta la platea di parenti che quotidianamente chiede di incontrare i propri congiunti in carcere. Ora però il fenomeno è diventato più diffuso proprio grazie all’uso dei droni. Sono piccoli congegni telecomandati, che vengono usati come strumento di precisione per trasferire merce al di là del perimetro circondariale. A Napoli, sull’uso dei droni ci sono le indagini dei pm Arlomede e Rossi, ovviamente con uno sguardo attento su quanto avvenuto in altri contesti regionali e in altre strutture penitenziarie. Cellulari, droga (da vendere dietro le sbarre), soldi e all’occorrenza armi. Una frontiera criminale che preoccupa non poco, alla luce di quanto sta accadendo in alcuni quartieri, colpiti da venti di guerra sempre più evidenti. Ponticelli, Fuorigrotta, Bagnoli, Secondigliano: spaccati cittadini segnati da agguati e pestaggi, stese e omicidi, che alimentano una sorta di corsa alle armi, magari utilizzando un drone da spedire nella cella dell’affiliato di turno pronto a farsi vendetta da solo per quanto subìto dentro e fuori le celle.

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