di Mario De Michele

Gratta, gratta e alla fine del fantomatico complotto plutocratico globo terracqueo ci si ritrova a tu per tu con lo scivolamento ormai evidente dell’Italia dallo status di Paese avanzato al rango di un Paese a reddito medio ormai distante dalla frontiera dell’economia mondiale. Un declino che avviene nonostante le migliaia di imprese dinamiche e i milioni di professionisti eccellenti d’Italia. In quella dei 27 Paesi dell’Unione europea la nostra economia, al netto della furia propagandistica, è crollata del 26% fra il 1995 e il 2023 (giù dal 17,2% al 12,7%). Negli stessi anni la sua quota è scesa del 21% anche fra i venti Paesi attualmente dell’euro. Slogan a parte, una trentina di anni fa pesavamo poco meno di un quinto dell’attuale zona, oggi pesiamo a stento il 15% oggi. Dipende dalla crescita delle nuove economie d’Europa centro-orientale? Niente affatto. Basta il confronto con la Francia: la quota dell’economia transalpina nell’attuale area-euro è rimasta praticamente invariata dal 1995 a oggi, la nostra è fortemente scesa. Siamo proprio noi a perdere rilevanza. Non lo dicono i pericolosi bolscevichi della sinistra (molti di loro non si immergono nel ginepraio dei numeri reali) ma la banca dati della Commissione europea. Se ci spostiamo oltreoceano possiamo notare che il trend degli Stati Uniti segna un paffuto più, a fronte della forte crescita dei Paesi emergenti dell’Europa centro-orientale. L’economia a stelle e strisce era del 52% più grande di quella dell’Unione europea, uno scarto di quasi diecimila miliardi di dollari che nel 2023 non ha fatto che allargarsi ancora. Facciamo un tuffo all’inizio della globalizzazione. Nel 1980 il prodotto interno lordo per abitante negli Stati Uniti era paragonabile a quello medio dell’Unione europea a 27 Paesi (malgrado il reddito basso delle economie allora sottomesse all’Unione sovietica). Torniamo al 2022: il reddito medio per abitante negli Stati Uniti è di 76.300 dollari correnti, quello medio nell’Unione europea è di 37.400 dollari correnti. Meno della metà, malgrado il fortissimo recupero dell’arco dei Paesi che vanno dall’Estonia alla Slovenia. Tra l’altro la differenza è cresciuta particolarmente a partire dalla crisi del 2008, primo grande momento di rottura del trentennio della globalizzazione. I dati in questo caso sono della Banca mondiale). Cestinate le chiacchiere, la narrazione social della premier Giorgia Meloni si frantuma contro i numeri real macroeconomici. L’Italia sta perdendo terreno su un’area economia che, a sua volta, sta rapidamente perdendo terreno rispetto alla frontiera produttiva e tecnologica del mondo. Siamo in decelerazione rispetto a un gruppo di Paesi che già di per sé decelera. La conseguenza è che la nostra perdita di velocità rispetto alla frontiera è impressionante. Nel 1992 il reddito medio per abitante negli Stati Uniti era di appena il 9% sopra a quello dell’Italia, in dollari correnti. Nel 2022 è di un bel pezzo più del doppio sopra a quello dell’Italia, 34 mila dollari contro 76 mila dollari medi per abitante. Si dirà che esprimere questi scarti in dollari a valore corrente non è perfetto; forse il confronto andava fatto in modo da scontare le fluttuazioni dei cambi o del valore d’acquisto. Ma di fronte a slittamenti così enormi non fa molta differenza. C’è di peggio. Il nostro Paese si sta chiudendo al mondo. In proporzione alle dimensioni attuali dell’economia, dal 2005 al 2022 l’Italia avrebbe ricevuto in totale investimenti esteri diretti per 120 miliardi di euro correnti in più, se ne avesse avuti in proporzioni pari alla Francia. E ne avrebbe avuti per 600 miliardi di euro in più, se l’Italia avesse avuto dal 2005 investimenti dall’estero pari alla media dell’Unione europea, sempre in proporzione al prodotto lordo.

Quanto agli investimenti diretti dall’Italia verso l’estero, dal 2005 hanno raggiunto un valore cumulato del 27% del Pil. Per la Francia del 40% del Pil, per la Germania del 48%, per la Spagna quasi del 60%. I legami produttivi dell’Italia con il resto del mondo si stanno sviluppando di meno rispetto alle economie avanzate. Importiamo meno capitali produttivi, meno conoscenze e competenze dei processi e delle tecnologie, meno innovazione. Siamo meno presenti nelle catene complesse di produzione e organizzazione del mondo, meno capaci di articolare la nostra presenza al di fuori delle nostre frontiere. Siamo un Paese che si rannicchia, insomma, come rimarca Confindustria. Eppure, nella sua azione di governo Meloni ha scelto di parlare pochissimo e in termini vaghissimi di economia. Come se gli italiani non avessero bisogno di una scossa, di un incoraggiamento, di sentire che a Roma c’è qualcuno che cerca di ridare energia al Paese. Gratta, gratta e alla fine il fantomatico complotto plutocratico globo terracqueo si sgretola come un castello di carta. Resta l’inesorabile il declino economico. Hai voglia di parlare di mirabolanti progetti (che non ci sono). La cupa realtà supera sempre la rosea fantasia.

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