di Nicola del Piano
Più volte si è scritto, in questo spazio, quanto dannose possano essere le iniziative legislative che nascono dall’emozione o dagli umori del momento. Quelli che attualmente attraversano l’Italia riguardano gli orientamenti sessuali, in un crescendo di morbosa curiosità verso azioni e decisioni che dovrebbero riguardare esclusivamente la sfera privata.
Perché il nostro Ordinamento giuridico possa contemplare un reato, fondamentale diviene il rispetto del principio di legalità. In particolare, i principi di tipicità e tassatività.
Nel cosiddetto reato di omofobia, in discussione alla Camera, non si comprende cosa deve intendersi per “omofobia”. Come si fa a definire un comportamento omofobico? Si può parlare di omofobia anche quando una madre copra gli occhi di un bambino dinanzi ad un bacio appassionato di due innamorati, così come farebbe se gli innamorati fossero eterosessuali? E’ omofobia affermare che l’omosessuale non nasce tale, ma lo diventa per ragioni legate alla sfera ambientale, e quindi affettiva e psicologica?
Il reato di omofobia inizia, insomma, dove finisce il principio della libertà d’espressione?
E’ bene ricordare che il principio sancito dall’art. 3 co. 1 della Costituzione “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” contiene da circa 60 anni quelle ragioni e quei motivi che adesso ci si sbraccia per vederli realmente riconosciuti.
Si dirà che, perché trovino una reale applicazione, occorre tramutare tali istanze in fattispecie penalistiche. Ebbene, vi è una legge, la n. 205 del 1993 (la c.d. legge Mancino), che punisce chi discrimina per ragioni razziali, etniche e religiose. Non si ritiene errato aggiungere, a tale norma, dopo aver meglio chiarito cosa deve intendersi per discriminazione per “orientamento sessuale” e “identità di genere”, tale discriminazione appunto, che rappresenterebbe un aggravante e si porrebbe in linea, tra l’altro, con il Trattato di Lisbona.
Un inquadramento della legge Mancino, dunque, più in linea con i tempi e maggiormente rispettoso dei diritti di ognuno, sarebbe la strada più idonea da perseguire.
Abbiamo qui il dovere di chiederci, a questo punto, cosa significherebbe, in termini di politica criminale, introdurre un reato che vorrebbe combattere una discriminazione, qualsiasi essa sia. Scegliere, infatti, di introdurre una tale fattispecie porterebbe ad un reclamo senza fine di istanze e diritti, per certi versi, addirittura paradossali ed assurdi, senza alcuna reale conservazione della convivenza civile.
Inoltre, è proprio necessario andare oltre, sancendo definitivamente una diversità tra omosessuale e eterosessuale che il nostro Ordinamento ha sempre respinto, tutelando l’individuo e l’essere umano in quanto tale? E’ proprio necessario, ancora, “sfoggiare”, anche legislativamente, scelte “personali” che sarebbe il caso rimangano nell’intima sfera del privato?
Appare evidente, infine, che questa battaglia che si sta portando avanti, ognuno dalla propria sponda, richiamando e “mettendo nel mezzo” il diritto, sia innanzitutto una battaglia culturale, le cui pulsioni dovrebbero attraversare gli animi e i cuori dei protagonisti, attraverso dibattiti, confronti e scontri, prima di approdare nelle aule di tribunale, pretendendo forse dal giudice e dal Diritto di formare l’ossatura del nostro Paese, un compito ed una funzione che non gli sono proprie.