di Antonio Martucci
La vicenda dell’Ilva di Taranto è uno spaccato dell’Italia degli ultimi 20 anni, della sua scarsa lungimiranza, della incapacità di programmazione e di soluzione dei problemi da parte della classe politica. Il conflitto tra il lavoro e la tenuta dei livelli occupazionali e la salute dei cittadini è questione antica ed è già stato vissuto in centinaia di altri casi.
E’ accaduto a Napoli come in Piemonte ma evidentemente non è servita la lezione. Appare utile ricordare che in casi come questi, il problema non si può affrontare gridando che le tesi degli uni come superiori a quelle degli altri, per il semplice motivo che tutti hanno ragione. E la politica, con una città spaccata a metà, non può scegliere solo il prezzo minore da pagare in termini elettoralistici.
E’ fin troppo evidente che la situazione dei cittadini di Taranto è drammatica qualunque sia la scelta che verrà presa sul futuro della fabbrica. La morte è una presenza sinistra che, come uno spettro, si aggira incombente sulla città. Essa si manifesta come tumori nelle carni mentre si respirano le polveri degli scarichi dell’ acciaieria ma anche come conseguenza della povertà, della miseria e della rabbia, delle famiglie degli operai dell’Ilva, ma anche di quelle dei lavoratori di tutte quelle imprese dell’indotto che saranno costrette a chiudere.
E stiamo parlando complessivamente di 20.000 famiglie. E allora come non capire che non ha senso la contrapposizione tra cittadini e operai. Come non comprendere che la soluzione non può essere, dopo 50 anni, chiudere e sgomberare per riconvertire un’area che, come Bagnoli insegna, resterà certamente cosi per decine di anni perché nessuno ci metterà un euro, pubblico o privato, producendo altro inquinamento ambientale.
Quanti miliardi di cassa integrazione dovranno pagare i super tassati cittadini italiani e dove troveremo le risorse per acquistare dall’estero i circa 4 miliardi di acciaio prodotto a Taranto? Chi salverà tutti quelli che vivono le patologie senza ritorno e quelle che deriveranno dalla distruzione economica dell’area e, soprattutto, chi darà un futuro ai ragazzi di Taranto e della Puglia? Forse qualche solone della vecchia politica avrebbe potuto pensare, senza aspettare l’intervento della magistratura, di mettere un punto, programmandolo con l’azienda, il lento ripristino degli impianti per la sicurezza ambientale e non cavalcherebbe, ora come allora, il malcontento e la disperazione sociale.
Questi si chiamano semplicemente piani industriali.