Il centrodestra fa quadrato attorno a Silvio Berlusconi. E di fronte alla legge anticorruzione (votata con 480 si’, 19 no e 25 astenuti) e al decreto attuativo firmato da Monti e dai tre ministri Filippo Patroni Griffi, Anna Maria Cancellieri e Paola Severino, tenta una difesa ”di carattere interpretativo” della norma che sancisce l’incandidabilita’ di chi e’ condannato con sentenza definitiva a piu’ di due anni di reclusione.
”La Legge Severino, come tutte quelle del governo Monti, sono solo leggi manifesto incomplete”, tuona il leghista Roberto Calderoli che azzarda un’ipotesi: siccome e’ l’art. 66 della Costituzione che attribuisce a ciascuna Camera il giudizio sui titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilita’ e incompatibilita’, ”se dovessimo tornare al voto prima del pronunciamento del Senato, Silvio Berlusconi potrebbe candidarsi sia alla Camera che al Senato della Repubblica”. Nel sostenere questa tesi, Calderoli prende le distanze sia dal presidente della Giunta per le Immunita’ Dario Stefano (Sel), a cui tocca sbrogliare la matassa della decadenza da senatore del Cav, sia da Francesco Nitto Palma, numero uno della commissione Giustizia del Senato. Dal primo perche’ ”sostiene l’impossibilita’ della candidatura di Berlusconi a future elezioni politiche”. Dal secondo perche’ afferma che, in caso di scioglimento delle Camere, sull’ ammissibilita’ della candidatura di Berlusconi giudicherebbe la Corte d’Appello e, nel caso ”si potrebbe presentare ricorso al Tar”. Secondo Calderoli, invece, la soluzione sarebbe un’altra: “Se si dovesse tornare al voto dopo che il Senato abbia dichiarato la sua decadenza, Berlusconi potra’ legittimamente candidarsi a deputato e solo la Camera successivamente potra’ giudicare sulla sua ammissione, ovvero sulla sua ineleggibilita’ o incompatibilita”’. Forse Calderoli, si fa osservare nella maggioranza, non si rende conto che la norma sull’incandidabilita’ ”e’ chiarissima” e che sulle candidature c’e’ un triplice vaglio. La prima parola spetta all’Ufficio elettorale che deve valutare se ci sono le condizioni o meno perche’ qualcuno possa essere messo in lista. Poi, c’e’ la Corte d’Appello che fa una verifica degli eletti. Infine, se i due precedenti filtri non fossero riusciti a bloccare l’ingresso in Parlamento di chi non ha i titoli a candidarsi, ci sarebbe sempre la Giunta per le Immunita’ a dire il ‘no’ definitivo. Ma e’ solo la Giunta, invece, che ha voce in capitolo quando il condannato e’ gia’ parlamentare. Tocca solo a lei, sempre secondo le norme vigenti, pronunciarsi sulla sua decadenza. E per far questo deve seguire una procedura ben precisa, prevista dal Regolamento per la funzione dei poteri, che dovrebbe concludersi, secondo Stefa’no entro ottobre. Poi spettera’ all’Aula prendere atto della decisione o contestarla attraverso il voto a scrutinio segreto di un ordine del giorno che potrebbero mettere a punto 20 senatori. La norma del decreto legislativo firmato da Monti, incalza nel Pd, ”parla comunque sin troppo chiaro”: non puo’ essere candidati ne’ puo’ ricoprire incarichi di governo chi ha riportato condanne definitive a pene superiori a 2 anni di reclusione, per delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni. E l’incandidabilita’ non puo’ durare meno di 6 anni. L’unica chance di ribaltare il verdetto potrebbe ‘affacciarsi’ tra tre anni. Dopo tale periodo, infatti, il condannato, se in precedenza incensurato, puo’ sempre chiedere di venire ‘riabilitato’.