La morte per fame e sete di 63 migranti al largo della Libia in un barcone alla deriva diventato la loro tomba, ha molti colpevoli, ma l’Italia è un po’ più colpevole di altri. “Come primo Stato ad aver ricevuto la chiamata di aiuto e sapendo che la Libia non poteva ottemperare ai propri obblighi, l’Italia avrebbe dovuto assumere la responsabilità del coordinamento delle operazioni di soccorso”: accusa il rapporto del Consiglio d’Europa, presentato oggi a Bruxelles.

Per quella tragedia – avvenuta a fine marzo 2011, in pieno conflitto libico – “siamo di fronte ad un catalogo di fallimenti e responsabilità collettive”, ha denunciato la relatrice, l’olandese Tineke Strink, ricostruendo l’agonia del ‘vascello lasciato morire’ da navi ed elicotteri sotto comando Nato e di singoli paesi, tra cui Francia, Italia, Spagna e Cipro. L’odissea comincia a Tripoli, dove 72 migranti sub-sahariani (tra cui 20 donne e due bebé) vengono costretti ad imbarcarsi dalle milizie di Gheddafi con contrabbandieri che presto si appropriano del cibo e dell’acqua a bordo. Dopo sole 18 ore di navigazione, il barcone va alla deriva. L’allarme viene dato dal ‘capitano’ che con un telefono satellitare chiama un prete eritreo che vive in Italia. Il messaggio è raccolto dal Centro italiano di coordinamento del salvataggio marittimo che per almeno dieci giorni lo rimanda in onda, avvisando le navi e gli aerei che stanno perlustrando quella zona di mare, interessata al momento dalla missione Unified protector, sotto comando Nato. “Nonostante la zona si trovasse sotto alta sorveglianza militare, nulla è successo”, ha denunciato la Strink. “L’ipotesi più probabile è che tutti sapessero e che tutti abbiano voltato gli occhi da un’altra parte per non doversi accollare la responsabilità di dare un rifugio ai migranti”. Di certo – è la tesi del Consiglio d’Europa – sapeva la Nato, così come la nave italiana Borsini che si trovava a 37 miglia dal barcone e la nave spagnola Mendez Nunez che era ancora più vicina, a sole 11 miglia. Entrambe provviste di elicottero. E sapeva l’elicottero dell’esercito francese che per primo si è avvicinato ai disperati del Mediterraneo lanciando loro biscotti e acqua, insieme alla promessa non mantenuta che sarebbe ritornato. Il Consiglio d’Europa – che discuterà il rapporto nella sua assemblea il 24 aprile prossimo – vuole giustizia. In particolare, sollecita la Nato a condurre un’indagine a tutto campo e a dare le risposte che ancora mancano per spiegare questo film dell’orrore. “Le loro navi potevano salvare queste persone e non l’hanno fatto: dobbiamo ancora capire perché”, ha detto Judith Suderland, di Human right watch. A muoversi sarà anche la giustizia ordinaria: l’avvocato Stefane Maugendre ha annunciato che a nome di organizzazioni non governative presenterà a Parigi una denuncia contro l’esercito francese a nome dei nove sopravvissuti. “Mi auguro che nessuna responsabilità sia riconducibile al nostro Paese, nel caso si dovesse fare una commissione d’inchiesta” ha commentato il presidente del Senato Renato Schifani che proprio oggi era a Bruxelles, sottolineando in ogni caso che “non bisogna dimenticare che il nostro paese si è sempre distinto per spirito di solidarietà e di accoglienza”. Secondo il ministro della Cooperazione Andrea Riccardi, invece, l’Italia deve “assumersi le responsabilità” della vicenda. “Credo – ha aggiunto – che sia un fatto che si aggiunge alla riflessione che noi dobbiamo fare su una politica corretta di immigrazione”. Molto più dura Livia Turco, responsabile immigrazione del Pd: “é un’accusa infamante ed è l’orrendo prezzo che deve pagare il nostro paese per la vergognosa politica di chiusura attuata dal governo Berlusconi-Maroni”. L’inchiesta del Consiglio d’Europa, però, un primo risultato lo ha già ottenuto. Ha ristabilito, dice infatti Laura Boldrini, portavoce dell’Alto commissario per i rifugiati(Unhcr) “il principio del salvataggio in mare”, importante per “evitare che il Mediterraneo si trasformi nella terra di nessuno, dove vige l’impunità”.

 

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