di Antonio Palma

La notizia dell’arresto del boss Zagaria non sembra avere riscosso un consenso particolare tra i suoi concittadini di Casapenna, ed anche tra alcuni uomini di chiesa di quella comunità. Ovviamente, i media anche nazionali non si sono lasciati sfuggire l’occasione per commenti ed analisi, alcuni raffinati e condivisibili, altri dal consueto sapore razzistico ed antimeridionalista.

Sono state opportunamente indagate le ragioni prossime dell’apparente neutralità degli abitanti della zona successivamente alla cattura, dell’involontaria complicità per avere assistito ai liberi movimenti del boss senza segnalare la circostanza alle forze dell’ordine, ragioni individuate fondamentalmente nella paura per le reazioni del clan, ancora schierato sul territorio e nella paura per le conseguenze dell’assenza di potere regolativo del territorio a seguito dell’arresto del capo, con la possibilità di essere esposti ai colpi di una criminalità divenuta acefala e quindi temibile perchè incontrollata. Bisogna però chiedersi se le ragioni vere siano quelle indicate, o se ve ne siano altre più profonde, collegate ai modi costituzione delle nostre comunità ,modi di costituzione che ne fanno realtà arcaiche ed allo stesso tempo straordinariamente moderne.

Appare sommamente opportuno chiedersi, in proposito, perché, il boss della mafia e della camorra ritenga suo dovere svolgere un ruolo positivo di protezione attiva del territorio di appartenenza e dei suoi abitanti dalla criminalità comune, quando non si fa scrupolo di devastarlo con il pizzo ed il ricatto sistematico di tutte le attività produttive. Ed è altresì parimenti inquietante l’interrogarsi sul perché i concittadini abbiano del boss l’ambivalente immagine di nemico ed amico ad un tempo, del protettore benefico pronto a trasformarsi in novello Mister Hyde, in carnefice che con la sua presenza impedisce lo sviluppo sociale ed economico della comunità. Emblematiche, in proposito, le parole del parroco che descrivono il boss pronto a benevolmente accogliere le richieste di aiuto che il sacerdote gli rivolgeva, prestando la sua autorevolezza ed il suo potere. Il capo criminale come è noto possiede il carisma che la sua forza violenta gli ha fatto conseguire, ma anche il riconoscimento della comunità per la cura che si assume verso di essa.

Un carisma dunque complesso, per la cui decifrazione è necessario ricorrere allo strumento semantico della nozione di identità. L’identità per una comunità ristretta, come le nostre particolari, o in termini territoriali od in termini valoriali è il confine tra il noi e gli altri, tra la conoscenza con la sicurezza e l’incognito, pericoloso perchè estraneo. Un fenomeno che spiega perché la cittadinanza, cioè la legittimazione civile e politica, venga in simili contesti a coincidere con l’identità. Il boss condivide il destino comune della comunità di appartenenza, è un noi, nel bene e nel male, mentre lo stato con le sue leggi è l’altro, è fuori le mura, può essere anche accettato per alcuni aspetti, ma il cuore, il sentimento dell’appartenenza è altrove, è nella comunità, vissuta come comunanza di destino, di passato, presente e futuro.

La crisi degli stati nazionali e delle cittadinanze statuali rende particolarmente moderna ed attuale la dimensione locale e comunitaria, con i conseguenti particolarismi. Per superare la forza rinnovata del localismo è forse necessario rideterminare una più ampia identità condivisa, di certo non solo con la forza dello stato, ma generando nuove affettività tra cittadini ed istituzioni. Paradossalmente, quando il procuratore della Direzione investigativa antimafia, arrestando Zagaria, gli ha giustamente urlato che lo stato aveva vinto, ottenendo l’assenso del boss, ha come confermato l’estraneità tra stato vincitore e comunità vinta in un contesto di dialettica ostile e non di virtuosa continuità.

Sottrarre i boss all’identificazione comunitaria dei concittadini, cacciarli al di fuori delle mura è dunque la vera vittoria, ma sarà lunga ed incerta.

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