di Mario De Michele

Manca una manciata di minuti all’inizio delle esequie di Teresa Diana, spirata a 85 anni, vedova di Nicola Schiavone, più nota come la madre di Francesco Schiavone, alias Sandokan. La chiesa del Santissimo Salvatore, nel cuore di Casal di Principe, rimbomba sotto il suono delle campane.

E’ un sabato pomeriggio soffocato dalla morsa del caldo. Anno di grazie 2012. E’ il 14 luglio. Pochi temerari sfidano il sole cocente rintanandosi però in bar e circoli ricreativi. Anche in chiesa poche persone. Troppo poche per i funerali della mamma del boss, per anni capo indiscusso dei Casalesi. Io e un collega appostati vicino al sagrato ci scambiamo uno sguardo incredulo. “Forse la gente arriverà in massa con il corteo funebre”, ci diciamo a vicenda con scarsa convinzione. Il feretro, partito alle 17 dall’abitazione della famigerata via Bologna, spunta alle 17.30, portato da una Mercedes nera che viaggia a passo d’uomo. Dietro i figli, i parenti, tra cui la moglie di Sandokan, e gli amici.

Io e il collega allunghiamo il collo per calcolare in anticipo la consistenza della partecipazione popolare. Forse, sperando intimamente, che ci sia una folla oceanica a dare l’ultimo saluto alla madre del padrino. Ma la folla non c’è. Non c’è l’invasione del centro di Casal di Principe. Non ci sono migliaia di persone in silenzio dietro la bara mentre raggiunge la chiesa. Guardo il mio collega. Lui sembra dire con gli occhi che abbiamo “perso” un pomeriggio soffrendo un caldo africano per una notizia che non c’è.

Il funerale della mamma di Sandokan sembra proprio un funerale qualsiasi. Se non fosse per qualche agente in borghese e per il cognome ingombrante del figlio, le esequie di Teresa Diana, sarebbero identiche a quelle di chiunque altro. Al seguito del feretro non ci sono gli sbarramenti di abiti neri (tipici dei funerali dei Casalesi), ma soprattutto non c’è la mobilitazione popolare. Non c’è la fila, interminabile, di persone che si accalcano per le condoglianze ai parenti. La gente di Casale non si è riversata in strada per onorare, a distanza, il boss per la perdita della madre. Neanche l’ombra del simbolismo camorristico.

“Non c’è la notizia”, ripete il mio collega, mentre qualcuno dei presenti, insospettito dalla nostra presenza, ci inizia a guardare con insistenza quasi per dire: non c’è nulla da vedere, perché non ve ne andate? Noi, in effetti, stavamo pensando la stessa cosa: perché non ce ne andiamo? E soprattutto che siamo venuti a fare? Neanche l’omelia del prete, com’era prevedibile, riserva frasi clamorose, se non che Teresa gli avrebbe confidato, pochi giorni prima di morire, di soffrire per la lontananza dei figli. Nessun clamore, dunque.

Io e il mio collega ci incamminiamo verso la nostra auto, accompagnati da delusione e perplessità. Saliamo e ce ne torniamo a casa. Dopo una doccia rinfrescante, ripercorro con la mente i momenti del funerale. E solo sotto il calore del phon colgo, finalmente, il senso vero della notizia. Che c’è. Eccome. Il “consenso sociale” dei Casalesi è crollato. I loro “rituali” non fanno più breccia nella gente. I boss e i loro familiari fanno meno paura.

Questa sì che è una notizia. Una bella notizia.

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