di Mario De Michele

Il carnefice che punta l’indice contro la vittima. Un camorrista, assassino, bestia, travestito da pentito, che vomita fango su un prete ucciso per la sua battaglia contro i Casalesi. Dalle fauci fetide di Carmine Schiavone, collaboratore di ingiustizia, è uscito un fiotto di sterco. Questo animale vestito da uomo ha gettato ombre e sospetti su don Peppe Diana.

Nel corso del processo che vede imputato Nicola Cosentino ha dichiarato: “Don Diana ha votato e ha portato una barca di voti a Cosentino perché glielo chiesi io”. E un uomo ignobile e spietato come Carmine Schiavone non poteva che sputare escrementi. “Sono stato il capo amministrativo dei Casalesi”, si è vantato durante l’udienza. E di soldi sporchi di sangue ne ha maneggiati tanti, costati la vita di centinaia di persone.

Dal 1993 Schiavone si convertito sulla via di Damasco. Si è emendato dai suoi peccati. E da imputato è diventato accusatore. Ha ammesso di aver fatto parte della Cupola del clan, un posto d’onore conquistato a colpi di pistola e kalashnikov. Una meta prestigiosa per uno come lui che ha iniziato in proprio come magnaccia. Una vita rocambolesca, quella di Carmine Schiavone: prima pappone, poi boss dei Casalesi, e infine pentito(?).

E in questa ultima “professione” ha sempre dimostrato doti fuori dal comune. Ha subito compreso che per fare carriera anche da collaboratore di ingiustizia era necessario “mirare in alto”. E ha capito al volo che per rendersi credibile davanti ai pm avrebbe dovuto sparare nel mucchio. Del resto, per i suoi gloriosi trascorsi ai vertici dei Casalesi ha molta dimestichezza con le armi.

Nel mirino di questo camorrista, assassino, bestia (non si offenderanno le bestie) è finito anche don Diana. Un giovane prete di Casal di Principe che “per amore del suo popolo non tacque”. E si schierò apertamente contro i Casalesi, lanciando un appello a tutte le persone perbene affinché si ribellassero alla criminalità organizzata. Quel prelato coraggioso (fino ad allora la Chiesa si era trincerata dietro un omertoso silenzio) fu zittito nel 1994. A colpi di pistola. Fu trucidato dai sodali di Carmine Schiavone nella sua parrocchia, poco prima che officiasse messa.

Già nei giorni successivi a quel barbaro assassinio, si mise in moto la macchina del fango dei pentiti(?) e degli avvoltoi di alcuni organi di informazione professionalmente inclini allo sciacallaggio. Sul cadavere di don Diana fu riversata una valanga di insinuazioni. Bugie. Ingiurie. Fango. Don Peppe fu ucciso due volte. Ora tocca a Carmine Schiavone, un camorrista, assassino, bestia, ammazzare per la terza volta don Diana. Un agguato scattato in un’aula di tribunale. Ma il collaboratore di ingiustizia mira a un doppio bersaglio: da un lato, infangare la memoria di don Peppe; dall’altro, delegittimare il movimento anticamorra nato in nome di quel prete che ha avuto il coraggio di opporsi allo strapotere dei Casalesi.

Il “caso Schiavone” apre un altro fronte sul quale noi di Campania Notizie ci stiamo battendo da tempo, attirandoci anche le critiche di chi milita nei movimenti anticamorra: è giusto prendere per oro colato tutto quello che dicono i collaboratori di ingiustizia? Non è rischioso considerare vere tutte le ricostruzioni delle dinamiche criminali degli ultimi 20 anni interne ai Casalesi? Non è fuorviante considerare camorrista o colluso con il clan chiunque sia tirato in ballo da criminali, assassini, bestie?

Per non rischiare di essere di nuovo bersagliati dalle critiche dei movimenti anticamorra, sgombriamo subito il campo da equivoci: il pentitismo (come avvenne nella lotta al terrorismo) è stato uno strumento utilissimo per gli investigatori per arrestare boss e affiliati, per comprendere l’organigramma dei clan, e per scoprire i traffici illeciti che hanno trasformato la criminalità organizzata in Camorra Spa.

Ma il punto focale su cui non si ha ancora il coraggio di ragionare è un altro: alle dichiarazioni dei collaboratori di ingiustizia devono corrispondere riscontri oggettivi, le loro parole devono essere suffragate da fatti e prove concrete. Non si possono considerare in odore di camorra persone, politici, amministratori locali, colletti bianchi, solo per sentito dire: “Un affiliato mi ha detto che ha sentito un altro affiliato riferire ad un altro ancora che Tizio o Caio sono legati al clan”.

L’attendibilità dei pentiti(?) si valuta sulla base di riscontri oggettivi, di prove concrete. Perché se consideriamo Vangelo, a prescindere dai fatti concreti, le accuse contro Nicola Cosentino o contro qualsiasi altro, allora dovremmo credere (con tutte le debite differenze) anche alle infamie sul conto di don Peppe Diana.

Non possiamo reputare credibili i collaboratori di giustizia a giorni alterni, o in base ai destinatari delle loro accuse. I cittadini di Terra di Gomorra pretendono giustamente che tutti i colpevoli – camorristi, politici, sindaci, imprenditori, professionisti – dello scempio e del sacco di interi territori siano arrestati e condannati con pene severe.

Bisogna fare luce sulla zona grigia tra camorra e politica. Dobbiamo batterci, nessuno escluso, per conoscere la verità “vera”. Non la verità dei pentiti(?).

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