“È sempre tempo di Resistenza”, ci ricorda Sergio Mattarella, da Genova. “Attuali i valori che l’hanno ispirata”. In tempi di revisionismo strisciante il capo dello Stato difende il contributo che i partigiani diedero alla liberazione dal nazifascismo. Fu “decisivo”, precisa, per “il crollo della linea Gotica costruita dai tedeschi”. Cita Luciano Bolis e Altiero Spinelli: un omaggio “agli esponenti antifascisti che elaborarono l’idea di Europa unita”. Applauso in sala. Bolis, azionista, “venne orrendamente torturato dalle Brigate nere nel febbraio ‘45”. Sottolinea che ora riposa a Ventotene. Ecco: Ventotene, il cui manifesto è stato messo in discussione dalla premier Giorgia Meloni in Parlamento. Ricorda i valori di Papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti, “che ha esortato a superare conflitti anacronistici, ricordandoci che “ogni generazione deve fare proprie le lotte e le conquiste delle generazioni precedenti e condurle a mete ancora più”. Onora un grande ligure, come Sandro Pertini, il presidente partigiano. E’ preoccupato per la regressione della democrazia. Lo angustia la fuga dal voto. “Non possiamo arrenderci all’assenteismo dei cittadini dalla cosa pubblica, all’astensionismo degli elettori, a una democrazia bassa intensità”.
Eccolo, in sintesi, il discorso per gli 80 anni della Resistenza del presidente della Repubblica. Appassionato e incisivo, ripercorre con nomi, fatti, date l’eroismo della Resistenza ligure. La gente applaude di fronte a ogni citazione. Era un movimento plurale, composto da azionisti, comunisti, democristiani, liberali, socialisti. Una lezione di storia. L’undicesima della sua presidenza. Mattarella atterra alle 11, col ministro Crosetto. Si reca subito al cimitero monumentale di Staglieno, dove depone una corona davanti al Campo 13 dei partigiani, che lui chiama “patrioti”. Mezz’ora dopo l’ingresso al Teatro nazionale, accolto da uno scrosciante applauso che dura più di un minuto. E’ il primo discorso pubblico del presidente dopo l’intervento per il pacemaker, dieci giorni fa. Liberazione da festeggiare con sobrietà, secondo gli ammonimenti del governo. Che cade nel lutto record di cinque giorni. Ma lo si può chiedere a Genova, medaglia d’oro al valore militare? Mattarella non l’ha certo scelta a caso. Ottant’anni fa qui i partigiani piegarono i nazifascisti senza il sostegno degli alleati. “Great job”, si complimentarono gli americani, quando piombarono in città due giorni dopo. Un unicum. Grande storia. Con tre protagonisti. Il generale nazista Guenther Meinhold. Il capo del Comitato nazionale di liberazione, il partigiano operaio Remo Scappini. E il mediatore, il medico napoletano Carmine Alfredo Romanzi. Meinhold aveva capito che la guerra era persa. “Non ho più voglia di combattere per Hitler”, scrive sul diario. Cerca la mediazione, all’insaputa del capo Siegfried Engel, “il boia di Genova”, lo spietato capo Sicherheitsdienst che era per resistere ad oltranza. La trova in Romanzi, antifascista azionista. Si vedono tre volte, nella prima metà di aprile. Poi Romanzi acconsente a un contatto.
Hitler ha chiesto di fare saltare il porto, distruggere l’economia e l’anima della città, in caso di insurrezione popolare. Come aveva fatto orrendamente a Varsavia. La popolazione vive ore angosciose. Engel è favorevole al Fuehrer, a Meinhold l’ordine ripugna. E qui entra il terzo personaggio: Scappini. Operaio di vetreria, ha iniziato a lavorare a dieci anni, comunista, è stato a Mosca, in esilio a Parigi, quando torna in Italia è perseguitato dai fascisti si è fatto nove di carcere: il tribunale speciale gliene aveva inflitti ventidue. E’ con lui che Meinhold deve scendere a patti. Il 25 aprile alle 19,30 a Villa Migone, sede della curia, davanti al cardinale Pietro Boetto, “giusto fra le nazioni”, viene firmata la resa. L’atto viene compilato in quattro copie, due in italiano, due in tedesco. Hitler, quando lo viene a sapere, condanna a morte Meinhold, per alto tradimento; il generale si consegna agli americani e avrà così salva la vita. Sarà prigioniero due anni, poi tornerà nella sua Gottinga, tornerà in Liguria per le ferie estive, nei decenni successivi. Scappini invece diverrà parlamentare di lungo corso del Pci. Romanzi il rettore dell’università. Il sentimento antifascista in città quindi è profondo. Genova, nel giugno 1960, si ribellò alla destra missina, che voleva celebrare qui il suo congresso, dopo il governo monocolore del democristiano Ferdinando Tambroni aveva ottenuto la fiducia anche grazie ai voti del Movimento sociale italiano. Tra i leader di quella rivolta, Sandro Pertini. L’aggancio fallì. Due anni dopo nacque il centrosinistra di Amintore Fanfani, sotto l’egida di Aldo Moro. Sono tracce che connotano per sempre l’anima della gente.
Tra i partigiani di Genova c’era Paolo Emilio Taviani, nome di battaglia “Pittaluga”. Fu lui ad annunciare via radio che la città era stata liberata: “Genova è libera, popolo genovese esulta”. Al Quirinale in questi giorni hanno ripreso in mano le sue memorie, tra cui Breve storia dell’insurrezione di Genova. Infatti Mattarella lo cita. Taviani, più volte ministro, fu un fervente antifascista, ma anche tra gli ispiratori di Gladio. Il che conferma che la storia è intessuta di contraddizione. Resistenza è stato anche opporsi al terrorismo negli anni Settanta. Genova fu in prima fila, a cominciare dalle fabbriche “scuole di democrazia”, “una risposta coraggiosa che si riassume nel nome di Guido Rossa”. Sette cartelle. Un discorso di ventidue minuti. Ma non vogliono farlo andare via. Lo stringono a sé. Il partigiano Eric Vallerio lo affronta, gli racconta della sua lotta, nel silenzio della sala. “Le auguro lunga vita!”, gli dice. Poi Mattarella rientra a Roma. Domani parteciperà ai funerali di papa Francesco. Riecheggiano nel teatro le sue ultime parole: “Viva la Liguria partigiana, viva la libertà, viva la Repubblica”.