di Nicola del Piano
Le norme che nascono riflettendo gli umori di una società rischiano spesso di essere accompagnate da strascichi infiniti di polemiche. Spesso sterili. Questo avviene in Italia ogni qual volta ci si trovi ad avere a che fare con il reato di “apologia del fascismo”, previsto dalla legge n. 645 del 1952 (la cd. Legge Scelba). Ci si è chiesto a lungo, ad esempio, il motivo per cui la stessa apologia non possa essere prevista anche per il comunismo. Tutto perennemente condito da frasi “crisi delle ideologie” (oramai da decenni), che fanno apparire quantomeno strano e ridicolo che si parli ancora di ciò.
Tuttavia, quelle braccia tese ed anchilosate dei cortei, arti di volti ben più cupi ed inespressivi, non possono distoglierci dall’argomento e dal reato in questione. La miccia è stata riaccesa dalle recenti commemorazioni della strage di Acca Larentia, ove il 7 gennaio del 1978 persero la vita tre poveri ragazzi di nemmeno 20 anni che, come tutti i ragazzi dei tempi passati e di quelli a venire, cercavano la propria identità nei modelli loro offerti dal pulsare della società. Furono accusati di tale atroce gesto cinque ex militanti di Lotta Continua, una delle formazioni della sinistra extraparlamentare.
Tornando alla legge Scelba, tra i timidi tentativi della Corte Costituzionale di sbrogliare l’ardua matassa giuridica, va senz’altro segnalato, per il suo interessante intervento nel dibattito, la sentenza del 6 dicembre 1958 n. 74, la quale precisò che la ratio della norma va vista nell’“autodifesa” dell’allora giovane stato repubblicano contro eventuali attacchi alla sua integrità. Pertanto, far riferimento ed accogliere un reato che punisce chiunque «faccia propaganda per la costituzione di un’associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità di riorganizzazione del disciolto partito fascista», oppure chiunque «pubblicamente esalti esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche», ha significato staccarsi nettamente da un passato ingombrante. Ma per far questo, purtroppo, le regole non bastano e forse usare queste ultime per tali fini, significa tradire proprio quei principi di democrazia e libertà tanto decantati nella formazione della norma.
Tuttavia, l’Italia da quel lontano 1952 è cresciuta e con essa le sue norme e la sua stessa società. A chi scrive sembra, pertanto, che la legge n. 205 del 1993 (la cd. Legge Mancino) e il titolo V del libro II del codice penale rappresentino bene quei principi a cui la Costituzione si è sempre ispirata, condannando e racchiudendo in sé il reato di discriminazione razziale, etnica e religiosa e condannando con forza ogni atto contro lo stato repubblicano e contro l’uomo, da qualsiasi ambiente provenga e da qualsivoglia vile tentativo di mascherare la nobiltà di un’idea attraverso il fango della violenza.