Il 2023, si sa, per Giorgia Meloni «deve essere l’anno delle grandi riforme». In attesa del via all’iter del Presidenzialismo e di capire in che modo l’Autonomia differenziata possa non penalizzare alcune Regioni, il governo sembra puntare deciso le sue fiches sulla giustizia. «Entro maggio – ha infatti garantito ieri ad un convegno a Treviso il Guardasigilli Carlo Nordio – saranno presentati vari disegni di legge con procedura d’urgenza riguardanti la procedura penale e che avranno un impatto molto rilevante». Gli assi portanti di quella che sarà un intervento volto a «garantire certezza del diritto e della pena», non sono però solo quelli dati per scontati fino ad oggi. Oltre alla revisione dei reati di abuso d’ufficio e traffico di influenze, tra le norme che il ministro vorrebbe in dirittura d’arrivo fa capolino anche il contrasto alla carcerazione preventiva. Ovvero, a riprendere le parole usate da Nordio durante un evento alla London school of economics pubblicate ieri dal Foglio, si proverà a ridurre «la possibilità che una persona venga incarcerata prima del processo, salvo casi di flagranza». I reclusi in attesa di primo giudizio o con condanna non ancora definitiva in effetti in Italia sono quasi il 30% tra i detenuti, attestando la Penisola fra i paesi europei che fa maggiormente ricorso alla custodia cautelare. Non solo, l’inquilino di via Arenula vorrebbe un dispositivo che ammettesse come «i detenuti non sono tutti uguali, così come i reati non sono tutti uguali». Cioè trasformare la visione «carcerocentrica della sanzione penale», offrendo maggiori garanzie ai cittadini. Tant’è che secondo il ministro il ricorso alla carcerazione preventiva non dovrebbe più essere disposto da un solo giudice, ma da «un pool di sei giudici che dovranno essere in maggioranza per validare la misura». Le intenzioni garantiste di Nordio sono evidenti e perfettamente in linea con la sua storia da ex pm. Posto però che già in altre occasioni sono rimaste frustrate, ora bisognerà capire in che modo possano tradursi in delle norme condivise dall’intera maggioranza. Questa porzione di riforma infatti rischia di essere particolarmente divisiva per il centrodestra. Basti pensare che appena lo scorso anno Fratelli d’Italia, in contrasto con la Lega sul punto, chiese ai propri elettori di votare “no” al quesito del referendum che prevedeva l’abolizione della custodia cautelare eccetto che per reati gravi, perché giudicato troppo permissivo (sarebbero cioè rimasti esclusi i reati contro la pubblica amministrazione, contro il patrimonio, la libertà personale e persino sessuale in assenza di chiari indizi di violenza). La mediazione risulta però già in atto. A quanto trapela Giorgia Meloni guarderebbe con favore «all’aumento delle garanzie», e quindi all’istituzione di un pool di giudici al posto del gip. Tuttavia il numero non torna. «I sei di cui parla Nordio sono probabilmente il risultato di un’esagerazione narrativa» spiega una fonte vicina al dossier. Con maggiore probabilità quindi, i nascenti pool potrebbe essere dimezzati, cioè composti da soli tre magistrati. Compromesso questo, su cui il governo prevede tra l’altro una «facile convergenza» del Terzo polo. Più difficile la trattativa tra Nordio, FdI, Lega e Forza Italia per quanto riguarda la «distinzione tra i reati». Cioè per la premier i presupposti per le misure cautelari devono rimanere gli stessi. Un po’ come per il referendum dello scorso anno in pratica, Meloni teme che per limitare un abuso si finisca con l’allargare troppo le maglie della giustizia, con un effetto boomerang che preferirebbe evitare. All’idea di Nordio di «differenziare» i reati più gravi da quelli meno impattanti, ad esempio legati alla tossicodipendenza, si valuta di opporre una pena alternativa. E cioè fare un maggiore ricorso alle strutture riabilitative, anziché costringere i detenuti a corsi rieducativi che non impattano sulla dipendenza.

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