di Mario De Michele

Il toto-nomi è come il toto-calcio. Appassiona. Taglia a fette. Quindi semplifica. Troppo. Così anche chi, in prima fila gli operatori dell’informazione, ha sempre criticato il partito democratico per la perenne guerra tra correnti oggi “denuncia” lo sfarinamento dell’apparato in vista del voto nei circoli, tra il 27 gennaio e il 12 febbraio, e delle primarie aperte del 19 febbraio. Ne discende che si dice tutto e il contrario di tutto spogliando parole e ragionamenti da qualsiasi significato, non perché come direbbe Lacan “il significato è un sasso in bocca al significante” ma perché le opinioni vengono risucchiate dalle tenebre della notte delle vacche nere. Le correnti in sé non sono il male assoluto. Inglobano sensibilità diverse. E quindi allargano gli spazi democratici. Il cancro del Pd è la lotta tra tribù. È il risiko dei posizionamenti con l’inevitabile corollario di spartizione di potere e di poltrone politiche e istituzionali. Risultato? Il tatticismo ha liquidato la strategia. Gli effetti nefasti sono venuti a galla alle ultime elezioni. E vengono accentuati dai sondaggi post-voto con i dem in caduta libera. Rispondere al “che fare?” sembra un’impresa impossibile ma in realtà non è poi tanto complicato a patto che si parta da un punto irremovibile: gli errori commessi dalla classe dirigente del partito. E qui si apre un capitolo spinoso: tutti, ma proprio tutti, invocano un rinnovamento totale del gruppo dirigente. Il che non è una iattura. Lo diventa quando a chiedere l’azzeramento dei dirigenti dem sono gli stessi che ne fanno parte. In soldoni auspicano l’azzeramento di se stessi. È questo il crocevia della morte del Pd: il gattopardismo cronico. Quel cambiare tutto per non cambiare nulla che ha determinato la moria di segretari e la parabola elettorale discendente. Se la parola cambiamento fosse riempita di sostanza, non ridotta a mero slogan, la conseguenza pratica sarebbe il funerale del partito. Le primarie dovrebbero tenersi il 2 novembre. Tutti, a fasi alterne, sono stati classe dirigente. Per logica tutti dovrebbero farsi da parte. Cosa resterebbe del Pd? Il nulla. Qualsiasi numero moltiplicato per zero dà sempre zero. Non tiene la frase fatta del partire da zero. Si parte da zero solo se si attraversano le forche caudine dello scioglimento. Soluzione che nessuno, di quelli che blaterano di azzeramento, persegue. Non è il tempo della filosofia della politica. È l’ora delle scelte politiche. Eppure quasi nessuno si aggrappa alle mozioni di Stefano Bonaccini, Elly Schlein, Gianni Cuperlo e Paola De Micheli. Sfidiamo i vertici dem a un confronto sulle piattaforme programmatiche dei quattro candidati. In pochi ne conoscono il contenuto. Se lo ricordano a malapena i presentatori delle mozioni. Per non parlare delle scopiazzature delle tesi del Lingotto. E delle proposte infarcite di retorica. In quanti sanno che il Pd è il primo partito tra i borghesi e solo il quarto nel mondo dei lavoratori? In quanti comprendono che la cesura con i territori ingigantisce la piramide con un vertice che sembra un puntino lontano per iscritti e militanti? In quanti vivono sul pianeta Terra? In quanti hanno veramente intenzione di tornare sul pianeta Terra? Ecco alcuni dei temi, concreti e terreni, su cui interrogarsi. Su cui indagare responsabilità e colpe. Da qui passa il rinnovamento. Quello dei contenuti e delle idee. Che, al netto degli infingimenti indigesti, camminano sulle gambe di uomini e donne. Anche e soprattutto su quelle di chi ha già guidato il partito. Il nuovismo della Schlein si schianta contro il muro di alcuni suoi sostenitori, il primo fra tutti Dario Franceschini, il “padrone” degli ultimi congressi, al punto che per indovinare il nome del nuovo segretario bastava sapere chi sosteneva l’ex ministro. Il faticoso barcamenarsi di Bonaccini tra vecchio e nuovo segnala la difficoltà del governatore dell’Emilia Romagna a tracciare un sentiero politico definito. Un cammino a zig zag lastricato di inciampi. Paradossalmente gli outsider Cuperlo e De Micheli sono i più coerenti e lineari. Il primo ha una storica identità di sinistra, quanto mai necessaria, che vorrebbe trasferire al partito. La seconda punta sugli amministratori locali nel tentativo di accorciare il gap tra vertice e base. La posizione di Cuperlo è confinata dai parolai da salotto nel perimetro del “passato”, senza indicare il mirabolante futuro. Le idee “basilari” di De Micheli sono etichettate come “pia illusione” dai supporter, ben nascosti, del verticismo. Nel toto-nomi Cuperlo e De Micheli partono sconfitti. Peccato che non si è capito bene da dove partono Bonaccini e Schlein. È ancora sconosciuto ai più dove vogliono arrivare. Cioè su quale riva far approdare il Pd. Celarsi dietro la dicitura di partito progressista è una scorciatoia autolesionistica. Significa tutto e nulla. Come si fa a non comprendere che in ballo c’è, come dice giustamente Cuperlo, la sopravvivenza del partito. Che deve qualificarsi con nettezza. Il riformismo non collima con la socialdemocrazia. Sappiamo dove ha portato il nuovismo, già sperimentato con Renzi. Quale sarà l’anima dem? La subalternità agli States o l’europeismo di berlingueriana memoria? Chi vuole rappresentare il Pd? A chi parlerà? Il rischio più grosso è rifugiarsi in un non meglio specificato interclassismo. L’errore da evitare è accomodarsi nell’indistinto. Per avere davvero un senso il congresso Pd deve partorire scelte chiare. Non basta dirsi di sinistra, come dimostra il cannibalismo dei 5 Stelle. È indispensabile ritrovare le radici della sinistra. Altrimenti avrà ragione D’Alema: il partito democratico è un amalgama mal riuscito.

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