di Nicola del Piano – Un piccolo fiume di fiamme che attraversa le strade di un piccolo centro. Nel silenzio, si sente ogni tanto urlare sommessamente, e con la voce rotta dall’emozione, un nome. “Angel!, Angel!” urla qualcuno, per poi ricadere nel buio umido dell’asfalto e dell’aria gelida di febbraio. Così per qualche ora, attraverso viottoli e viuzze addormentati dalla noia e dal tempo che, inesorabile ed indifferente, scorre veloce.

Nella delicata fiamma di una candela risiede tutto il potere dell’uomo, nel tentativo infinito e coraggioso di lanciare lontano il male, la pesantezza di esso e delle sue membra, come se, d’un tratto, esse non avessero più alcuna forza, come se esse potessero essere spente da un soffio sottile, lo stesso soffio, invece, che basterebbe a spegnere quelle candele e quelle fiammelle e a lasciare quegli uomini “illusi” brancolanti nel buio. Angel era un cane, un animale, lanciato dall’ultimo piano di un palazzo in un comune casertano e trovato morente da qualche anima pia.

 

Ma gli animali uccisi e trucidati ogni giorno sono migliaia. Uno in più non può fare alcuna differenza. Che sono quelle fiamme scese ad illuminare le strade di Casaluce e i cuori degli uomini, increduli e stupiti da quella “ingenuità”? Fiamme e fuoco a spegnere il dramma di un cane gettato dall’ultimo piano di un palazzo. Che sono questi deboli fuochi? Chi si credono di essere questi “idioti” venuti a invadere le strade, a bloccare il traffico, questi amanti degli animali più che degli uomini, questi disperati troppo sensibili e sognatori? E tutto per un cane poi. Non ha senso, così come non ha senso continuare a parlarne, a discuterne, a leggere queste righe. Gli animali vengono da sempre mangiati, uccisi, squartati con crudele perversione, deliziando ogni giorno il palato e le fogne di tutto il mondo. Ma quanto sono belle queste anime che si ergono a paladine di un qualcosa che non trova alcuna dimora in questo mondo. Al solo guardarle sembra quasi di sentirsi meglio, con sé stessi e con il mondo, come si fa con le bambole. Eppure, non è forse la morte dell’animale a farci vergognare di essere uomini, non è il dolore di quell’essere solo e ucciso.

Non è nemmeno il concetto di suicidio nell’animale che potrebbe interessare qualche curioso, la valutazione di Angel che “sceglie” di buttarsi dalla terrazza, perché in quel momento la strada migliore tra il rimanere e l’andare era proprio quella di gettarsi nel vuoto. No, nulla di tutto ciò. Quelle fiamme e quel flebile calore bruciano la coscienza dell’umanità e portano ad interrogarsi sul concetto stesso di uomo, di quel che resta di un’umanità che arriva a considerare sé stessa capace di nefandezze di ogni specie, anche quella di lasciare che una bestia si butti dall’ultimo piano di un palazzo nel pieno centro di un piccolo paese. Oppure è tutta incoscienza? Ma se è incoscienza, allora ancor più in questa, vi è tutto il dramma di uomini non più uomini e nemmeno bestie, uomini perduti senza più alcuna identità e non più riconoscenti della propria natura.

Ecco, quindi, che del mondo animale nulla più importa o comunque non è questo concetto ad assumere un’importanza rilevante; è dell’uomo che ci interessa e delle strade infuocate e sporche che percorre, oramai spogliato di ogni briciola di umanità. Ed è forse in questo, e non in altro, il significato della vicenda di Angel, a cui tutte quelle piccole fiammelle di un rigido pomeriggio invernale hanno reso omaggio, snodandosi attraverso i viottoli e le viuzze di anime perse, nella speranza vana ma necessaria di risvegliarne qualcuna, di continuare il sogno, di restare ancora, e con sempre maggiore forza, “soltanto” uomini.

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